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28 Settembre 2022Per non restare in superficie e provare a rispondere in modo meno impressionistico alla domanda «E ora che facciamo?», è buona abitudine analizzare il voto facendo i conti con i voti assoluti e non solo con le percentuali che, in un contesto di astensione crescente, mostrano una realtà distorta.
Domenica 25 settembre si sono astenuti circa 16 milioni e 500mila elettori ed elettrici, passando da un’astensione del 27% nel 2018 a una del 36,1%: sono stati 29.412.632 i voti alla Camera rispetto ai 33.995.268 delle scorse elezioni, una differenza di 4.582.636 persone. Diversi commentatori mainstream hanno cercato di presentarlo come un dato uniforme alle democrazie occidentali, sorvolando proprio sull’evidente crisi delle democrazie a capitalismo avanzato. Si tratta però di un dato inaggirabile per qualsiasi analisi seria del voto, un record non solo in termini assoluti ma anche come calo tra un’elezione politica e l’altra: l’affluenza in Italia è rimasta sopra il 90% dal 1948 al 1979 e sopra l’80% dal 1983 al 2008, è poi scesa intorno al 70% dal 2013 per arrivare oggi intorno al 60%. Il calo dell’affluenza è stato costante negli ultimi anni, ma mai l’astensione era cresciuta più del 2-3% tra un’elezione politica e l’altra. Lo scarto di oggi rispetto al 2018 è invece del 9%, ed è nella top-10 dei maggiori cali dell’Europa occidentale dal 1945 a oggi, rendendo l’Italia il quintultimo paese per affluenza alle urne nel vecchio continente.
Voti assoluti e flussi elettorali
Guardando i voti assoluti alle liste, la prima cosa che salta agli occhi è che la coalizione di centrodestra vince in modo chiaro ma complessivamente non sfonda nella società:nel 2018 aveva infatti ottenuto alla Camera 12.152.345 voti, sostanzialmente equivalenti agli attuali 12.287.825.
La crescita prodigiosa è quella dell’estrema destra di Fratelli d’Italia che ottiene 7.293.782 voti rispetto a 1.429.550 del 2018. Secondo l’analisi dei flussi elettorali di Swg il 16% di questi voti viene dalla conferma dei propri elettori del 2018, un altro 50% dagli altri partiti di centrodestra (30% che votava Lega e il 20% che votava Forza Italia), il 17% proviene da chi nel 2018 aveva votato M5S e un ulteriore 17% da chi si era astenuto. Ad ogni modo i voti guadagnati, 5.864.232, sono identici ai 5.722.682 voti persi dai suoi alleati di centrodestra: Forza Italia è passata infatti da 4.596.956 a 2.276.499 voti, la Lega di Salvini da 5.698.687 a 2.462.245 e la lista Noi moderati 427.152 a 255.369 voti.
Il Partito Democratico, che in termini percentuali sarebbe andato appena meglio del minimo storico del 2018, ha in realtà un risultato ancora peggiore della debacle renziana di quattro anni fa, passando dai 6.161.896 voti del 2018 alle attuali 5.306.358 preferenze. Mentre i partiti alla sua sinistra rimangono impantanati senza riuscire ad allargare il proprio già stretto bacino: la lista Liberi e uguali nel 2018 aveva ottenuto 1.114.799 voti e oggi la lista di Verdi e Sinistra italiana ha raccolto 1.017.000 preferenze, così come Unione popolare di Luigi De Magistris con i suoi 402.187 voti amplia appena i 372.179 consensi alla lista Potere al popolo nel 2018.
Il calo verticale è quello del Movimento Cinque Stelle che è passato da 10.732.066 voti nel 2018 agli attuali 4.326.914: una differenza di 6.405.152 persone tra cui, secondo l’analisi dei flussi di Swg, circa 4 milioni si sarebbero effettivamente astenute nel 2022, cifra simile al dato dell’aumento complessivo dell’astensione. Se insomma il risultato del Movimento Cinque Stelle può essere a buon diritto rivendicato come un successo rispetto al calo elettorale già subito alle elezioni europee del 2019 e soprattutto ai sondaggi dei giorni successivi alla caduta del governo Draghi, il crollo dell’affluenza si spiega anche con l’incrinarsi – dopo quattro anni di governo di tre colori diversi – dell’illusione dell’alternativa anti-establishment «né di destra né di sinistra», che sembra esser stata solo in parte minoritaria riassorbita dal voto ad altri partiti.
Il voto odierno al Movimento di Giuseppe Conte, sempre secondo i dati Swg, sembra però profondamente modificato, più esplicitamente progressista e legato a politiche sociali come il Reddito di cittadinanza: quest’anno si dichiara di sinistra il 49% degli elettori pentastellati rispetto al solo 29% del 2018, solo il 4% si dichiara di destra contro il 12% del 2018, coloro che non si collocano politicamente scendono dal 44 al 31%, mentre rimangono stabili intorno al 15% gli elettori dei Cinque stelle che si dichiarano di centro.
Capalbio e Coccia di Morto
«È la rivincita di Coccia di Morto su Capalbio», ha dichiarato a caldo citando il film Come un gatto in tangenziale Pietrangelo Buttafuoco, giornalista, scrittore e vecchio dirigente del Movimento sociale italiano, amico e consigliere di Giorgia Meloni. Sembra il mondo all’incontrario, la destra che rivendica il voto popolare contro il voto borghese di sinistra.
Secondo l’analisi dell’Istituto Ixè l’affermazione è in realtà solo parzialmente veritiera riguardo a Fratelli d’Italia: il voto medio del 26% sale al 28,3% tra gli elettori che si dichiarano in condizioni economiche appena accettabili ma scende al 13,4% tra chi si dichiara in condizioni economiche inadeguate.
La battuta di Buttafuoco coglie però una verità per quanto riguarda il Partito democratico. Del resto il Pd è stato – insieme alla lista di Carlo Calenda e Matteo Renzi – il partito più ancorato sostanzialmente e anche come propaganda politica agli interessi dell’establishment. È una storia che si ripete, in buona parte orientata dai due ultimi presidenti della Repubblica tanto osannati: Giorgio Napolitano ha inguaiato nel 2013 il Pd di Pierluigi Bersani inchiodandolo alla fedeltà al governo Monti, oggi Sergio Mattarella ha vincolato Enrico Letta alla fedeltà al governo Draghi, portando anche alla suicida rinuncia della coalizione con il Movimento Cinque Stelle. Non stupisce allora, per fare un singolo esempio, che a Napoli il Pd sia primo partito solo al Vomero e Chiaia, mentre il Movimento Cinque Stelle prende il 65% a Scampia, il 60% a San Giovanni, il 54% a Ponticelli e percentuali molto sopra il 40% nelle aree popolari del centro storico.
La tendenza è confermata dalle analisi dell’Istituto Texè che indica come il voto medio del 19% raccolto dal Pd scenda al 15,3% tra chi si dichiara in condizioni economiche appena accettabili e addirittura all’8,1% tra chi si dichiara in condizioni economiche inadeguate. Tendenza inversa a quella del Movimento Cinque Stelle, il cui dato medio del 15,3% sale al 19,5% e addirittura al 27,2% tra chi si dichiara, rispettivamente, in condizioni economiche appena accettabili e in condizioni inadeguate, mostrando una chiara distribuzione di classe del voto.
In molti luoghi insomma, soprattutto al sud, c’è stata effettivamente una polarizzazione del voto dei ceti subalterni verso i Cinque Stelle mentre la composizione sociale che rappresenta ormai il voto al Pd rende problematico, dal punto di vista della rappresentanza democratica, il fatto che questo partito copra lo spazio politico di sinistra. Anche per questo i tentativi di rigenerazione del Partito democratico, magari attraverso una candidatura alla segreteria leggermente più di sinistra o attraverso un’alleanza elettorale con Sinistra Italiana e Verdi e non esclusa da Giuseppe Conte appaiono poco credibili ed efficaci.
L’astensione così alta nelle zone più povere e marginali del paese suggerisce una lettura di classe anche della distribuzione del non voto. Il calo dell’affluenza è stato generalizzato ma molto maggiore nelle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali: se Emilia-Romagna (71,97%), Veneto (70,15%) e Lombardia (70,09%) hanno registrato la maggiore partecipazione, i dati più negativi sono stati in Calabria (50,79%), Sardegna (53,15%) e Campania (53,29%). Le regioni con un calo maggiore dell’affluenza sono quindi quelle più povere. A conferma di questa evidenza l’Istituto Ixé ha calcolato al 50% il livello dell’astensionismo (rispetto al 36% medio) tra chi si dichiara in difficoltà economica.
Questi dati vanno poi sommati alla persistente volatilità elettorale nelle ultime tre elezioni, ossia alla variazione molto alta delle scelte elettorali delle singole persone: se dopo un’elezione con alta volatilità si tende ad aspettarsi una successiva ristabilizzazione delle intenzioni di voto, la terza elezione consecutiva con una variabilità così alta mostra un sistema partitico sempre più in crisi, con progetti politici sostanzialmente privi di radicamento sociale e di capacità partecipativa, e un voto sempre più liquido e meno legato all’appartenenza politica. Cosa che non può far dormire sonni tranquilli nemmeno all’attuale solida maggioranza intorno a Giorgia Meloni.
L’urgenza di un nuovo radicamento di classe
Chi vuole ricostruire il campo di battaglia non può non guardare a questa composizione di classe dei votanti e delle 16 milioni di persone che non si sono recate alle urne, e a questo bisogno di ricostruzione della partecipazione democratica. Cogliendo anche i segnali interessanti emersi ad esempio dal voto dei giovani che animano il movimento ambientalista, che sarà sempre più centrale nel prossimo futuro. Sempre secondo l’Istituto Ixè infatti, il 3,6% raccolto mediamente dall’Alleanza rosso-verde si trasforma nel 10,5% all’interno dei votanti tra i 18 e i 24 anni mentre in quella stessa fascia d’età Fratelli d’Italia vede scendere il suo 26% al 15,4%, confermando lo scarso appeal tra i e le giovani dimostrato dalle contestazioni ai suoi comizi.
L’analisi di questi dati conferma che la prima difficile urgenza per chi vuole ricostruire una sinistra legata ai movimenti sociali e agli interessi di classe non è la ricerca della migliore leadership e delle alleanze politiche, pur necessarie, ma la ricostruzione di una capacità di intervento nella plurale e multiforme composizione della working class e di un immaginario politico credibile di trasformazione radicale. Nel n. 13 di Jacobin Italia abbiamo provato a indagare chi sono, come vivono, lavorano e si organizzano le lavoratrici e i lavoratori dell’epoca contemporanea. La sfida più difficile, specie di fronte a un governo guidato da una leader postfascista, è contrastare le forme di inclusione differenziale e le gerarchie che razzismo e patriarcato hanno seminato nel corso degli anni e di cui il capitalismo si approfitta per sfruttare, dividere, segregare e distrarre la classe. L’urgenza è un’alleanza sociale tra sfruttate e sfruttati che provi a frenare la deriva della «classe contro sé» per tornare a immaginare politicamente una «classe per sé».
Per farlo occorre non schiacciarsi su un’opposizione «democratica» amorfa e non connotata socialmente, rifuggire il linguaggio moralistico e rendere l’idea delle lotte intersezionali non solo uno slogan o un rifugio nelle singole identità antagoniste, ma una ricerca costante di minimi comun denominatori di classe tra le diverse oppressioni, con sperimentazioni di organizzazioni reticolari, plurali, mutualistiche e sindacali a «insediamento multiplo». Da questo punto di vista l’impostazione più interessante è quella della convergenza sociale proposta dal Collettivo di fabbrica di Gkn che indica già due date di mobilitazione che possono aiutare a iniziare con il piede giusto la nuova fase politica di opposizione al governo Meloni. Reagiamo scendendo in piazza subito allora, il 28 settembre con il movimento femminista Non una di meno in diverse città in difesa dell’aborto e tenendoci liberi per le date di convergenza il 22 ottobre a Bologna e per il 5 novembre a Napoli.
*Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, fa parte del desk della redazione di Jacobin Italia.