di Chiara Saraceno
Una manovra attenta alle famiglie e ai ceti medio-bassi: così la premier ha presentato la bozza della legge di stabilità. Un’attenzione certo apprezzabile, che va verificata nella sua effettiva sostanza e coerenza. Per i ceti medio-bassi, a prescindere dalla composizione familiare, c’è la proroga del cuneo fiscale, ma solo per un anno e il rifinanziamento della carta acquisti alimentari per famiglie con ISEE fino a 30.000 euro. Carta tuttavia che esclude sia i percettori di indennità di disoccupazione, a prescindere dal loro ISEE, sia i beneficiari del Reddito di cittadinanza e dal 2024 dell’Assegno di inclusione, che per definizione non possono avere un ISEE superiore ai 15.000 euro, sia i percettori del sostegno di inclusione attiva, che devono avere un ISEE ancora più basso. Esclusi, quindi, sono proprio i più poveri i cui bisogni alimentari sono evidentemente valutati come meno consistenti o meno legittimi. Contestualmente, si rimanda sine die la discussione in aula parlamentare del salario minimo, evidentemente considerata questione irrilevante con buona pace di chi ha contratti da 5 euro lordi l’ora. Ed invece si prospetta un ulteriore sconto per gli evasori fiscali. In conclusione, l’attenzione per i ceti economicamente più modesti appare se non altro un po’ contraddittoria, oltre che di breve respiro.
Il cosiddetto “pacchetto famiglia” appare a prima vista più coerente, nel senso che appare esplicitamente e sistematicamente orientato a sostenere insieme la fecondità e l’occupazione delle madri: aumento del sostegno economico per il pagamento della retta al nido a partire dal secondo figlio, decontribuzione parziale (per il secondo figlio) o totale (per il terzo) per le madri lavoratrici, aumento dell’indennità del secondo mese di congedo genitoriale dal 30 al 60 per cento, dopo che lo scorso anno era già stata aumentata (all’80 per cento) quella per il primo mese. Anche in questo caso, tuttavia, a guardare bene, il quadro appare non solo meno roseo, ma meno coerente. In primo luogo, aumentare il contributo per la frequenza al nido serve solo a chi è abbastanza fortunato da trovare un posto: una minoranza, dato che in Italia c’è posto in un nido – pubblico, privato, convenzionato – solo per un bambino su tre, quota che nel Mezzogiorno scende a 1 su dieci. In altri termini, non è solo il costo che trattiene dall’usufruire del nido, ma la mancanza di posti, una questione cui il PNRR avrebbe dovuto iniziare a dare un risposta, ma si tratta di uno dei settori su cui è più indietro, sia per responsabilità anche del governo precedente, che ha scelto di utilizzare il sistema dei bandi, lasciando ai comuni la libertà, ma anche la responsabilità, se partecipare o meno, non garantendo così i diritti dei bambini e dei loro genitori, sia a causa di una incomprensibile impuntatura della Commissione, che accetta per il finanziamento solo la costruzione di nuovi edifici e non la ristrutturazione, allargamento, rifunzionalizzazione di edifici già esistenti. Un’altra cosa che getta ombra sulla coerenza ed efficacia del “pacchetto famiglia” rispetto agli obiettivi dichiarati è la concentrazione sui secondi e terzi figli.
È vero che chi vuole avere un figlio prima o poi (più spesso poi) lo fa. Ma le difficoltà che incontra nel decidere di farlo (lavoro precario, specie per le donne, difficile accesso ad un’abitazione, mancanza di servizi) oltre a far rimandare la decisione, di fatto riducendo quelle successive, possono diventare anche un potente scoraggiamento. Per sostenere le libere scelte di procreazione nella situazione attuale occorre facilitare già la decisione di avere il primo figlio, anche con una visione lunga, non ferma, per altro inadeguatamente, sui primi anni di vita. La mancanza di una buona scuola a tempo pieno può diventare un deterrente per la decisione di averne un secondo. Aggiungo che i generosi (decontribuzione totale) provvedimenti pensati per le madri che hanno tre figli o più ignorano il fatto che non solo queste sono una piccolissima minoranza sul totale delle madri, ma sono una minoranza ancora più esigua sul totale delle madri lavoratrici proprio per le difficoltà che queste continuano ad incontrare a mantenere una occupazione già con il primo figlio.
Un terzo elemento critico del “pacchetto famiglia” è che non prevede nessun incentivo per i padri perché condividano maggiormente le responsabilità di cura. Nell’aumentare da uno a due i mesi di congedo ben indennizzati perché non condizionarne la fruizione alla condivisione tra entrambi i genitori? Se ci sono, naturalmente. Oppure, perché invece non allungare il congedo di paternità oggi fermo a 10 risicati giorni? Si ha l’impressione che invece si ritenga che la cura dei bambini, specie se piccoli, tocchi solo alle madri.