La guerra è cambiata
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21 Gennaio 2024di Fernando Gentilini
Nel gennaio di quarant’anni fa cominciò i suoi lavori la Commissione nazionale sui desaparecidos creata nel dicembre del 1983 dal presidente Alfonsín. Forse l’atto più emblematico di quell’incredibile stagione democratica in Argentina dopo gli anni delle giunte militari. Perché la volontà di far luce sulla sorte delle migliaia di scomparsi era di per sé sinonimo di cambiamento; e perché la presidenza della Commissione fu affidata a uno dei più grandi scrittori argentini di sempre, Ernesto Sábato, come a voler rilanciare il legame imprescindibile tra letteratura e arte di governare.
Ernesto Sábato era uno scrittore immerso nel suo tempo. Già militante comunista, poi scienziato e docente di fisica, nei suoi romanzi, amplificata dalla finzione, si respira Argentina alla stato puro. Al centro i dubbi e le inquietudini dell’uomo moderno, con le sue imperfezioni e la sua sete di libertà e giustizia sociale. E sullo sfondo le epopee di San Martin e Bolivar, le atmosfere di Buenos Aires, la nostalgia metafisica di un popolo fatto di altri popoli, le fasi alterne della storia patria tra antiche casate decadute, caudillos e caciques.
Questo spiega perché Alfonsín abbia chiamato proprio lui a capo della Commissione. E spiega il rigore e l’onestà intellettuale del rapporto frutto di quei lavori, il Nunca Más, cui le critiche da destra e da sinistra non impedirono di divenire il simbolo di una nuova fase politica, piena di riscatto e speranza. Quell’Argentina insomma, dopo anni di sangue, pareva destinata a riprendere il proprio posto tra le nazioni, visto che prima di avvitarsi su se stessa agli inizi del Novecento, era stata una delle grandi economie planetarie.
C’è una teoria letteraria affascinante, avanzata da Vargas Llosa tempo fa, secondo cui il problema dell’Argentina «ha a che vedere più con una certa predisposizione interiore e psicologica che con le dottrine economiche o con la lotta degli individui e dei partiti al potere». L’Argentina insomma, secondo il Nobel per la letteratura peruviano, avrebbe una «ben nota preferenza per l’irreale», il che, anche sul piano della vita pratica, la porterebbe a identificarsi con Jorge Luis Borges e il suo «abbagliante universo fittizio».
Diversamente dal mondo di Sábato, in cui il fantastico proviene dagli orrori e dalle aberrazioni della realtà, quello di Borges è sempre lontanissimo dalla vita vera, popolato com’è di sogni, fiabe, deliri e invenzioni letterarie. Un “miraggio miracoloso”, dove non c’è posto per le cose concrete di tutti i giorni, e che per questo, secondo Vargas Llosa, somiglia incredibilmente all’Argentina del nostro tempo, figlia del peronismo e culla del populismo mondiale, in cui nessuno, a partire dai suoi governanti, sembra mai essersi preoccupato troppo della realtà politica, economica o sociale.
Vargas Llosa scrisse queste considerazioni all’inizio del 2003, sperando in una svolta responsabile di Duharte. Sennonché, negli anni seguenti, il debito estero continuò a crescere, la crisi finanziaria si fece inarrestabile, la gestione della spesa pubblica diventò sempre più disinvolta, e l’Argentina, anziché imboccare i sentieri virtuosi della realtà che portano al benessere, si è andata sempre più inoltrando verso quelli pericolosi dell’irrealtà, giungendo alla situazione che è sotto i nostri occhi e che nelle ultime elezioni ha portato alla vittoria del “loco” Javier Milei e della sua motosega.
Oggi c’è solo da sperare che l’Argentina riesca a uscire presto dalla crisi. E forse è anche per questo che Vargas Llosa, prima delle scorse elezioni, ha voluto esprimere il suo sostegno a Milei e al suo programma. Ma certo che le retromarce d’inizio mandato su punti chiave della campagna elettorale, come la dollarizzazione o l’abolizione della Banca Centrale, e l’incertezza e la polarizzazione di questi giorni, rendono difficile fare previsioni, anche perché non si può escludere che quello di Milei, con buona pace di chi lo ha votato, non sia che l’ennesimo salto nell’irrealtà borgesiana.
Su media e social argentini imperversano i riferimenti alle presunte affinità tra Milei e Borges, visto che dopo tutto Borges è sinonimo di fiction, postmodernità e realtà virtuale, cioè tutte cose che Milei in qualche modo prova a cavalcare… Anche se forse la sola affinità plausibile tra il presidente e lo scrittore è sul piano sociale, almeno stando al ritratto che di Borges ci ha lasciato Sábato nel suo Sopra eroi e tombe: di un uomo che «non sente la patria nella sua interezza», che non ha «né la sensibilità né la generosità di sentire il paese come lo può sentire un contadino o un operaio del mattatoio».
Questo per dire che le proteste popolari dei giorni scorsi contro le misure del presidente iperliberista avrebbero forse lasciato indifferente l’“anarco-capitalista” Borges, ma non Ernesto Sábato. Perché per l’autore del Nunca Más un governo che affama gli affamati non sarebbe accettabile, come non sarebbero accettabili il negazionismo o una classe politica dove c’è chi vorrebbe liberare i militari condannati all’ergastolo, osteggia le Abuelas de Plaza de Mayo, sogna di trasformare i luoghi della memoria in parco divertimenti…
Io perciò me lo immagino che si rivolta nella tomba Ernesto Sábato, a quarant’anni dall’inizio della stagione democratica che con il suo Nunca Más lo vide protagonista… Epperò mi immagino pure che non sia troppo sorpreso da questo epilogo borgesiano, perché alla sua morte, nel 2011, il paese era malato terminale da un pezzo. Nel suo Sopra eroi e tombe, cinquant’anni prima, aveva previsto già tutto. «La mia conclusione è ovvia: continua a governare il Principe delle Tenebre» scrisse profeticamente. «È tutto così evidente che quasi mi metterei a ridere se non fossi preso dal panico».