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14 Maggio 2025Uruguay Malato da tempo, si è spento ieri l’ex presidente, icona della sinistra mondiale, ex “tupamaro” e da ultimo ideologo del buon senso. «Il guerriero ha bisogno di riposo», diceva
«Un guerriero ha diritto al riposo». E un guerriero José Alberto Mujica – meglio “El Pepe” come lo chiamano affettuosamente i suoi concittadini in Uruguay – un guerriero lo è stato davvero. Ha rischiato la vita nella guerriglia del Movimento di liberazione nazionale, Tupamaros (dal 1966). E nei 13 anni di galera – dal ’72 all’85 – con i quali ha pagato la sua militanza. Una galera dura, isolamento, torture psicologiche e fisiche, senza mai cedere.
Una galera che gli ha minato il fisico, come ha riconosciuto all’inizio di gennaio, quando ha annunciato: «Semplicemente sto morendo. Il cancro si è diffuso e mi ha compromesso il fegato. Non riusciamo a fermarlo… E io non voglio né chemio pesante, né operazioni chirurgiche perché il mio fisico è debole, ne ha passate troppe… Il guerriero ha diritto al riposo». Pepe ha chiesto così di lasciarlo in pace, a casa assieme alla sua compagna di più di cinquant’anni della sua vita, Lucía Topolansky, anche lei ex militante contro la dittatura ed ex senatrice. Ed è li che è morto a 89 anni. Era nato infatti a Montevideo il 28 maggio del 1935.
A RIPOSARE si era chiuso nella sua umile chacra (casolare) de Rincón del Cerro alla periferia (povera) di Montevideo dove era ritornato nel 2015 alla conclusione di cinque anni di presidenza della Repubblica Orientale dell’Uruguay. A bordo del suo “mitico” maggiolino Folkswagen, immortalato nel documentario a lui dedicato dal regista serbo Emir Kusturica (El Pepe, una vita suprema). Quel maggiolino che era diventato il simbolo del suo stile parco e popolare, la vettura vecchia e un po’ scassata con cui si muoveva dalla casa di tre stanze nella chacra al palazzo della presidenza e ritorno. E quasi il 90% del suo stipendio da presidente devoluto alla lotta contro la povertà.
«Pepe è l’ultimo eroe politico in un mondo dove i politici parlano di cose che la gente non intende», sosteneva Kusturica. Ma anche i due giornalisti uruguaiani Andrés Danza e Ernesto Tulboviz che hanno firmato un libro a lui dedicato: Una oveja negra al poder (Una pecora nera al potere). Perché pur provenendo dalla guerriglia e poi dalla formazione di sinistra Movimento di partecipazione popolare, pur essendo stato il simbolo col quale il Frente Amplio (al quale il Mpp aderiva) aveva vinto le elezioni nel 2010, pur giunto alla presidenza negli anni della prima «ondata rosa» (progressista) che all’inizio del Duemila si era imposta in vari paesi dell’America latina (e nel Caribe), Mujica non aveva mai aderito al Socialismo del XXI secolo, proclamato da Hugo Chavez (e sostenuto da Fidel Castro). Certo ne ammirava i leader, ne condivideva parte dei programmi e la lotta antimperialista. Ma non l’impostazione ideologica. Era dunque una pecora nera, leader ascoltato della sinistra latinoamericana, che «parlava come un filosofo» (Alberto Fernández, ex presidente argentina), ma fuori dagli schemi.
ERA, E SI VANTAVA DI ESSERLO, «un pragmatico». Danza e Tulbovitz nel loro libro descrivono un uomo contrario al dogmi e innamorato del buon senso. «Una delle principali fonti di conoscenza è il senso comune – affermava Mujica -. Il problema è quando metti l’ideologia al di sopra della realtà. La realtà ti arriva come un pugno e ti fa rotolare per terra… Io devo lottare per migliorare la vita delle persone nella realtà concreta di oggi e non farlo è immorale. Questa è la realtà. Sto lottando per degli ideali, ok; ma non posso sacrificare il benessere della gente per degli ideali».
Gli ideali erano rivolti alla gente comune, animati da un liberalismo progressista, una critica violenta al consumismo. Con coraggio. Necessario per far passare le grandi riforme liberali che, sotto la sua presidenza, portarono l’Uruguay a depenalizzare l’aborto, a legalizzare il matrimonio tra omosessuali, a regolarizzare la vendita della marijuana attraverso lo Stato, dando un bel colpo ai narcos.
L’orizzonte della sua politica era la felicità: «Lo sviluppo deve essere a favore della felicità umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane». Concetti che ripeteva anche in interventi politici, come nel corso del vertice della Celac (Comunità stati latinoamericani e del Caribe) all’Avana (2014). Spiazzando un poco il linguaggio sinistrese, ma ricevendo applausi e consensi.
Il quell’occasione l’ho incontrato brevemente. Mi disse che sua madre era ligure (come me) e che il suo successo rappresentava anche la vittoria dell’integrazione e della multiculturalità. «Perché la razza pura é una merda».
AMMIRAVA CUBA E FIDEL, ma la sua pratica di governo era diversa. Poteva discutere con i leader del socialismo del XXI secolo – molto con l’ecuadoriano Correa , ancor di più con l’amico brasiliano Lula – ma a casa sua, a Montevideo, si siedeva e trattatava con imprenditori. «Se li caccio e nazionalizzo, corro il rischio che si riducano gli investimenti e i posti di lavoro per la mia gente». Facendomi capire che l’esperienza di Cuba, per esempio, dimostrava che lo Stato non dava garanzie di saper maneggiare meglio gli affari. Dunque, bisogna essere pragmatici, affiancare il buonsenso – la migliore delle ideologie – mentre si espongono idee di progresso.
Un ex tupamaro alla presidenza dell’Uruguay, il primo ex guerrigliero – e probabilmente l’unico – invitato nella stanza ovale della Casa Bianca dall’allora presidente Obama, in procinto di «aprire a Cuba» e recarsi in visita all’Avana (2016). Una vera pecora nera.