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29 Ottobre 2022Giustizia giusta?
di Enrico Nistri
È sempre motivo di dolore la morte di una giovane donna in un infortunio sul lavoro che sarebbe stato facilmente evitabile se non fossero state alterate le procedure di sicurezza dei macchinari. Lasciare questo mondo a ventidue anni intrappolati in un orditoio come è successo a Luana D’Orazio è una fine oltre che orribile assurda, che aiuta a comprendere la reazione emotiva della Fiom di Firenze, Prato e Pistoia di indire per ieri un sia pur simbolico sciopero di protesta. Lo è a maggior ragione se la giovane ha lasciato un bambino cui nessuno potrà mai restituire la gioia di avere una madre, e se due fra i responsabili dell’incidente — la titolare dell’azienda teatro della tragedia e il marito, titolare di fatto — sono stati condannati con rito abbreviato a una pena che, grazie ai meccanismi della condizionale, non farà scontare loro, salvo recidiva, nemmeno un giorno di carcere (diversa la posizione del manutentore dei macchinari, che andrà a processo sotto l’accusa di omicidio colposo e rimozione dolosa di cautele antinfortunistiche). Alla delusione per una sanzione che il comune sentire giudica inadeguata si aggiunge la preoccupazione che sentenze come queste abbiano un effetto controproducente, consolidando in imprenditori disonesti, incoscienti e magari troppo assillati dall’esigenza di far fronte a ogni costo alla concorrenza, soprattutto straniera, la convinzione che vada come vada possono comunque sperare nell’impunità.
Almeno sotto il profilo penale. Mai come in casi come questi si avverte la dicotomia fra le «carte» e le «cose», fra la grammatica e la pratica, fra le regole declamate nei corsi di aggiornamento sulla sicurezza sul lavoro e una realtà quotidiana fatta, almeno nelle piccole imprese, di «si è fatto sempre così», di «le consegne non possono aspettare», di «se devo seguire alla lettera le norme debbo chiudere e licenziare».
La legge e la giurisprudenza — a parte la nuova fattispecie dell’omicidio stradale — sono abbastanza miti nei confronti dei responsabili di reati colposi: a tutti, nel giudizio corrente, può capitare «il momento del bischero», la distrazione fatale, il prevalere della stanchezza; e l’indulgenza si estende in molti casi anche nei confronti dei cosiddetti delitti dei «colletti bianchi».
Chi ha visto quella pellicola di culto che è stata Papillon sa che se fossero vissuti nella Francia della Terza Repubblica a molti bancarottieri che hanno truffato migliaia di piccoli risparmiatori sarebbe potuta toccare una sorte assai meno indolore.
A tutto questo si aggiungono le nuove procedure americanizzanti che, in una logica contrattualistica, permettono all’imputato di contrattare uno sconto di pena in cambio di un’ammissione di colpevolezza. È una scelta che non manca di una sua logica: la giustizia non è tale se subentra troppo tardi, quando magari sono già deceduti colpevoli e vittime. Ma non bisognerebbe mai dimenticare che altro è la «vuccirìa», altro un Palazzo di Giustizia, sia pure un po’ sghimbescio come quello che è toccato a noi fiorentini.
Naturalmente, nessuno chiede vendetta: la giustizia, come insegna la storia del diritto, è nata proprio dall’esigenza di sostituirsi alla faida e all’esercizio arbitrario delle proprie ragioni; anche per questo, forse, i magistrati sono a volte così severi nei confronti di chi esercita la legittima difesa.
Ma non bisogna mai dimenticare che sentenze proporzionate alla gravità dei reati costituiscono il miglior antidoto alla crisi di fiducia nei confronti della Magistratura. Non è detto che il carcere rieduchi sempre il delinquente, ma la consapevolezza dell’incombenza della pena può scoraggiare preventivamente chiunque dalla tentazione di delinquere.
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