di Marco Zatterin
Nel migliore dei mondi possibili, un governo attento alle esigenze dell’Italia, terra di talenti straordinari e di inefficienze imbarazzanti, aprirebbe subito il tavolo che – se gestito con equilibrio e lungimiranza – permetterebbe all’economia di volare e alla maggioranza di vincere probabilmente a mani basse le elezioni. Sentite le imprese e i lavoratori, un buon esecutivo dovrebbe disegnare quella che dalle nostre parti non s’è mai vista, cioè una solida e intelligente politica industriale, capace di raccordare ciò che è buono e correggere il resto. Per rendere possibile questo compito immane – lo è! – potrebbe magari far attendere qualche semestre le riforme istituzionali e anche il Ponte sullo Stretto. Il benessere che deriverebbe dal concentrarsi sulle urgenze reali, dal mettere nel giusto ordine le priorità del sistema produttivo, limiterebbe i costi, attirerebbe investimenti e darebbe una carica all’economia tale da rendere parecchio difficile la fine della luna di miele con gli elettori.
Invece niente. La distrazione continua, c’è una crisi e si fa finta di nulla o quasi; quando esploderà, si cercherà un colpevole e pagheremo tutti. È già successo. La storia della siderurgia nazionale è una via crucis che conduce a un autodafé. L’Ilva andava risanata dopo l’accordo del 1993 fra Roma (il ministro Andreatta) e la Commissione (Karel Van Miert), doveva essere l’ultima volta dell’intervento statale (dell’allora Iri). Non è andata così e dai bresciani si è finiti agli indiani senza che il problema di fondo fosse risolto. Quale? Semplice. L’Ilva è il produttore numero uno in Europa di acciaio “primario” derivato a direttamente dal minerale di ferro. La sopravvivenza dell’impianto di Taranto, e degli altri stabilimenti, è cruciale per evitare di spingere in una brutta crisi più di una manifattura. Serve a mantenere sotto controllo i costi delle materie, a garantire l’offerta, a salvare uno storico patrimonio di conoscenze che assicura un numero non trascurabile di posti di lavoro. L’alternativa è il precipizio.
Per questo, bisognerebbe metterci la testa, oltre che la cassa. Riprogrammare l’attività, la struttura finanziaria, perché tutto fosse efficiente anche dal punto di vista ambientale. Un sistema economico dalle grandi potenzialità come quello italiano deve poter contare su una produzione siderurgica allineata alle sue esigenze. Ha bisogno che si faccia rete e che si guardi lontano. Al contrario, il governo Meloni – in buona continuità con i predecessori – pensa ad altro e, sinora, ha dimostrato di privilegiare il cortotermismo di programmazione, inseguendo soluzioni più spettacolari che dirimenti.
Ora tutto lascia prevedere l’Ilva rifinisca in mani pubbliche e che altri soldi pubblici dovranno essere pagati per evitare il peggio, con le inevitabili dispute del caso con l’antitrust Ue. Ci vuole un miliardo e tre per partire, secondo Invitalia. Ben sapendo che in assenza di una politica industriale che dia abbrivio all’acciaio e affronti le transizioni, e attiri i privati, il rischio di ritrovarsi daccapo fra pochi anni è drammaticamente concreto. Con un’aggravante: i guai saranno analoghi e il conto più salato.