Anna Zafesova
Mentre i russi continuano a ironizzare postando sui social meme sul “Lago dei cigni” – il balletto con il quale la televisione sovietica interrompeva le trasmissioni in caso di morte del leader o di colpo di palazzo – al Cremlino e dintorni è in corso un altro balletto in punta di piedi, e su un campo minato. La rivelazione uscita sul quotidiano Kommersant, che l’indagine criminale per rivolta armata contro Evgeny Prigozhin sia stata tutt’altro che archiviata («a garantire la sua incolumità c’è la parola del presidente», aveva detto la sera del mancato golpe il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov), è un avvertimento a tutti: la procura è al lavoro, i servizi segreti anche. Possiamo solo immaginarci la mole di intercettazioni e tabulati con le chiamate ricevute dal “cuoco di Putin” nelle 24 ore in cui ha tenuto in scacco tutta la Russia. Ci saranno anche i tracciamenti degli aerei, con tutti gli itinerari del jet privati decollati da Mosca verso Baku e Istanbul (tra cui, si dice, quello del ministro dell’Industria Denis Manturov, dell’oligarca e amico personale del presidente Boris Rotenberg e del magnate dei metalli Vladimir Potanin, ricomparso a emergenza finita con un post che lo mostrava a pescare in Russia).
«Li abbiamo fatti correre», è stato il commento del capo della Wagner mentre abbandonava, sabato sera, Rostov, osannato dai passanti. Ora, nulla è più come prima. Due capisaldi del regime putiniano – la stabilità e l’irremovibilità – sono stati spezzati. Quasi 25 anni impiegati dal leader russo a eliminare intorno a se qualunque possibilità di una alternativa, di un “numero due”, di qualcuno a cui delegare parte del potere, sono stati polverizzati da un blitz di un’armata di mercenari assoldati da lui stesso. E il mito del leader inflessibile che non si piega mai a un negoziato – né con i ceceni, né con i liberali, né con gli ucraini – è andato in frantumi quando, nemmeno 12 ore dopo aver promesso di punire chi gli aveva infilato “un coltello” nella schiena, è sceso alle trattative, e all’amnistia, con i Wagner ammutinati.
Non è nello stile del presidente russo fare chiarezza e ordinare esecuzioni sommarie, ma fino a che non fa delle mosse esplicite assomiglierà a quel gatto di Schroedinger che potrebbe essere ancora vivo come già morto. Prima di agire deve però fare l’inventario dei suoi uomini, ripensare il sistema di fedeltà personali, di clan e baronie, di eserciti privati e funzioni dello Stato appaltati ad amici. Molti fedelissimi hanno taciuto, fin troppo a lungo: Ramzan Kadyrov, considerato una sorta di figlio adottivo di Putin, ha preso posizione soltanto nel pomeriggio di sabato. Margarita Simonyan, la capa della TV di propaganda RT, si è rifatta viva soltanto ieri. Altri hanno votato con i piedi, come Rotenberg, compagno di allenamenti nella palestra di arti marziali di Leningrado negli anni ’60.
Un altro intimo del presidente che le gole profonde vicine al Cremlino danno per spacciato è Nikolay Patrushev, l’ex capo dell’Fsb e ora segretario del Consiglio di sicurezza, che durante il golpe di Prigozhin si trovava nel Kazakhstan. Sono anni che a Mosca si dice che Patrushev stia addestrando suo figlio Dmitry, ministro dell’Agricoltura, a diventare il “delfino” di Putin, in una successione pilotata come lo stesso Putin fece con Boris Eltsin. Pare che il presidente sia furioso con Patrushev che non ha previsto (o non ha voluto prevedere) l’ammutinamento di Prigozhin.
Viene invece dato in ascesa il governatore di Tula Aleksey Dyumin, ex guardia del corpo di Putin, vicino ai fratelli Yuri e Mikhail Kovalchuk (il primo viene indicato come l’ispiratore dell’invasione dell’Ucraina, dopo essersi rinchiuso nel lockdown con il presidente). Ma si tratta di indiscrezioni di palazzo che non aiutano a ridare una prospettiva di futuro a un regime che grazie a Prigozhin ha misurato in maniera piuttosto brutale la base ridotta del proprio sostegno. Il cerchio magico del Cremlino è debole, diviso, corrotto e privo di visione, e finora ha sostenuto il “Capo” proprio come cardine e arbitro. Ora però Putin ricorda il detto russo sulla valigia senza maniglia, che dispiace buttare, ma che ormai è impossibile da portare. Il presidente russo ha impiegato un quarto di secolo a costruire un sistema dove dell’opposizione non esiste nemmeno l’ombra, ma da amante della storia non ha imparato una lezione che Prigozhin ora gli ha ricordato: i dittatori e gli zar russi sono caduti quasi sempre sotto i colpi dei propri parenti, attendenti o consiglieri.