C’è una bella serie di fotografie, scattate da Enrico Cattaneo nel 1977, che ritrae Francesco Somaini intento alla realizzazione della colossale Carnificazione di un’architettura: grande martirio: è una piccola figura, vestita dalla testa ai piedi da una tuta con scafandro, intenta a lavorare col getto d’aria compressa sull’opera, come se avesse ingaggiato una lotta con un gigante o con un mostro marino. Non è un caso se Luisa Somaini l’ha scelta per il manifesto della mostra Somaini e Milano (catalogo Electa, pp. 232, e 34,00), divisa fra Palazzo Reale (fino all’11 settembre), Museo del Novecento e Fondazione Francesco Somaini (fino a novembre), per raccontare il rapporto dello scultore di Lomazzo con il capoluogo lombardo e con i protagonisti della cultura milanese del suo tempo.

Quell’immagine restituisce lo spirito titanico, quasi wagneriano, che innerva la ricerca di Somaini e la sua sfida nei confronti della materia, nata nel solco dell’Informale e uscita da questo con un salto di scala, nella comprensione del ruolo sociale che la scultura poteva svolgere relazionandosi allo spazio urbano. In quella fase già matura l’artista era arrivato a una originale soluzione per uscire dalle lusinghe epidermiche del tocco di pollice che si imprime su un materiale plasmabile: un getto di aria compressa e sabbia per levigare la forma, scavare solchi profondi e darle l’effetto di un corpo organico e fluido, plasmato senza essere toccato da mano umana. Per fare questo aveva attrezzato un apposito laboratorio-officina che gli consentisse di lavorare con un macchinario da lui stesso pensato a misura delle proprie esigenze.

Era inevitabile che un luogo del genere attirasse l’occhio di quei fotografi più attenti al racconto dell’arte contemporanea a Milano, che vi sono tornati più volte per ritrarlo al lavoro. Oltre a Cattaneo, infatti, c’è Ugo Mulas, che realizza nel 1971 un intenso ritratto dello scultore in abiti da lavoro, che pare però parente del Palombaro di Carlo Sbisà (1931) piuttosto che un canonico ritratto d’artista. Nel racconto fotografico di entrambi Somaini sembra l’esploratore di un mondo misterioso, il cui sguardo sembra catturato da misteri speleologici (Mulas) o avvinto da una tempesta d’alta quota (Cattaneo).

Da qui si comprende il carattere sublime e terribile della sua scultura, il rapporto drammatico con la materia che innerva per esempio l’onda sinistra, memore della Nike di Samotracia, del Monumento ai Marinai d’Italia, pensato a fine anni sessanta come fulcro di un più ampio e complessivo riassetto dell’omonima piazza milanese progettata da Luigi Caccia Dominioni, che con le sue numerose varianti fa da ouverture alla mostra curata da Francesco Tedeschi a Palazzo Reale. C’è qualcosa di incombente, che Enrico Crispolti a suo tempo aveva letto come una memoria dell’Art Nouveau, di cui lo scultore aveva colto sotto la superficie fiorita e ornata un lato cupo e vitale: una forma organica, mossa da una tensione interna sempre sull’orlo di esplodere, di enfatizzare uno stato di tensione. Ma l’approdo a quel mondo di forme, nato dall’estetica del frammento, era avvenuto dopo un decennio di tentativi nel solco del modernismo: come racconta la prima sezione di Palazzo Reale, nel giro di pochi anni Somaini era passato dalla lezione di Manzù, suo maestro per breve tempo in accademia, all’esperanto concretista internazionale che gravitava intorno a Bloch e alla rivista «Art d’aujourd’hui», passando per il classicismo astratto di Viani. Anche in seguito, quell’esperienza non sarebbe rimasta lingua morta: il tarlo dell’architettura e l’attenzione per il contesto urbano lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.

È questo, infatti, il perno della mostra alla Fondazione Somaini, curata da Fulvio Irace, che dà conto dei progetti e soprattutto delle utopie progettuali dell’artista, della sua visione della città moderna e dell’irruzione monitoria della scultura come anti-monumento. Difficile dire se questo abbia davvero fatto di Somaini un «archiscultore», ma è certo che fra gli scultori della sua generazione era il più aggiornato sul dibattito urbanistico internazionale: l’unico di cui si potesse organizzare un’esposizione alla stregua di una mostra di architettura, fra bozzetti, schizzi e fotomontaggi.

Doveva soltanto compiersi quella «metamorfosi», su cui si sofferma il saggio di Francesco Tedeschi, verso una forma aperta, pronta a espandersi fino ad aggredire lo spazio circostante: abbandonando la plasticazione per modellare la cera a fuoco, Somaini aveva «ferito» la forma mostrando l’interno lucente di un grumo di materia, dai bordi slabbrati perché protesi verso l’esterno. Bisognerà riflettere, partendo anche dai titoli delle opere di questa stagione, su quanto abbia contato la memoria di guerra su queste scelte e su un certo modo di affrontare di petto la materia con gesti violenti. Ma bisogna allo stesso tempo rilevare la concomitanza di queste esperienze con la progressiva rivalutazione del Futurismo, grazie al quale compirà uno scarto dinamico rispetto alle ricerche dei suoi coetanei. È la convergenza di questi elementi, infatti, a consentire la felice collaborazione con Ico Parisi e Lucio Fontana per il progetto presentato al concorso per un Monumento alla Resistenza nella città di Cuneo (1963): un grande complesso attraversabile, che ruota attorno a un lungo solco a terra pensato da Fontana e ripercorso, se non addirittura penetrato, dalle punte della scultura di Somaini.

Mi chiedo se in questo progetto – fulcro della documentatissima sezione al Museo del Novecento sugli «incontri» dell’artista con l’ambiente milanese (artisti, architetti e fotografi) – non si riconosca in nuce il preludio a quell’erotismo dell’arte astratta ancora latente nell’opera del nostro scultore, magari instradato verso quell’immaginario dalle iconografie allusive dell’italo-argentino. Nel giro di poco tempo, infatti, con titanismo michelangiolesco sarebbe emersa da quella materia una forma anatomica, come un’architettura che improvvisamente si trasforma in carne e muscoli. In molti, di fronte alle opere disposte nella Sala delle Cariatidi, hanno pensato che, in un dialogo arduo e complicato con le dimore storiche, quelle opere sembravano imparentarsi coi telamoni dell’architettura neoclassica, ancor più essendo smangiati e diruti in seguito ai bombardamenti del 1943. La chiave di lettura, forse, è proprio quella: una scultura ferita, che cuce il tessuto di una città violata, senza pietosi rammendi, ma tesi nervi scoperti.