«Ti mangio il cuore», spaesante libertà nel Gargano dalla vendetta
25 Settembre 2022Woody Allen si ritira
25 Settembre 2022Le Grand storie e Le grandi regie al cinema e nei teatri
di Simonetta Sciandivasci
Mario Martone ha firmato quasi cinquanta regie: teatrali, cinematografiche, liriche. Più una decina di documentari. Ha cominciato nel 1977: aveva diciotto anni quando realizzò Avventure al di là di Tule. Ha raccontato Leopardi, Scarpetta, Caccioppoli, Goliarda Sapienza, Filottete: eretici caparbi, gloriosi grazie a una sconfitta. E il Risorgimento, i Saharawi, Napoli. E compagnie teatrali che provavano a lavorare in mezzo alla guerra: la prima mondiale e quella in Bosnia degli anni Novanta. Ha tratto un film dal primo romanzo di Elena Ferrante, L’amore molesto (e/o), nel 1995, quando la “Ferrante Fever” era inimmaginabile. Durante il Covid, a teatro, ha fatto Il Barbiere di Siviglia e La Traviata: le sale erano chiuse al pubblico, e allora lui ha usato la platea come set cinematografico. Quest’anno, a teatro, ha portato Rigoletto di Giuseppe Verdi e Fedora di Umberto Giordano (dal 15 ottobre al 3 novembre prossimi a La Scala di Milano). Al cinema è uscito Nostalgia, il suo ultimo film, presentato a Cannes, che sarà nella dozzina degli italiani agli Oscar. Vive a Roma, è napoletano, lavora spesso a Milano, e ancora più spesso a Napoli, la città che gli sfugge dalle mani e alla quale appartiene poco, come a tutto: è un esule in casa, un migrante nato.
Il suo primo film comincia in treno, l’ultimo in aereo.
«È una bella coincidenza, dice molte cose: la casualità lo fa sempre. In entrambi i casi, i protagonisti stanno su una soglia. Ed era così anche nel mio primo lavoro teatrale: era un’installazione, gli spettatori entravano calpestando dei cocci di vetro, e poi si inoltravano in un altro spazio, cominciavano a camminare. Il cammino mi interessa: è il senso del viaggio. Nei miei film si cammina moltissimo perché si cerca sempre moltissimo. Io sono in cerca perché sono un “disappartenente”, e invito gli spettatori a viaggiare e cercare con me».
Si sente mai faticoso?
«Quello che mi impegno a non essere è noioso».
E a dire la verità?
«Certo, ma intendiamoci: il vero ha per me un’importanza primaria se appartiene alla realtà di quello che sto facendo e raccontando. Pasolini diceva che il cinema è un’arte della realtà. E la realtà per me è sempre il punto di partenza, non un vincolo».
E il pragmatismo è un vincolo?
«È difficile dirsi: voglio fare qualcosa di poetico! Io, almeno, non ci riesco. Parto dicendo: voglio raccontare una storia, voglio compiere un viaggio. È una determinazione, è un agire: il procedere è più importante del risultato, che peraltro è incontrollabile, arriva indipendentemente dalla volontà di chi lo persegue, e spesso se ne discosta parecchio. Nessuno può sapere cosa succederà quando dipinge un quadro o gira un film: deve farlo e basta».
Lei è un workaholic?
«No».
Però lavora tantissimo.
«L’agire, il fare, l’operare mi aiutano a tenere a bada l’inquietudine».
Cosa la rende inquieto?
«Il peso di me stesso. Una volta sentii Carlo Cecchi, uno dei più grandi maestri del nostro teatro, parlare ironicamente di sestessità. Ecco, la sestessità, il grande mistero della nostra essenza, per me è insondabile: io sento di non appartenere nemmeno a quella cosa lì, a quel nocciolo, e questo mi affascina e mi muove tanto quanto mi turba».
Una cosa che è certo di essere?
«Eh…’ na parola!»
Mi permetto: di sinistra?
«Senz’altro voterò a sinistra».
Ha seguito la campagna elettorale?
«Quasi per niente. E le confesso che, da quando è stata fissata la data delle elezioni, ho interrotto la lettura della politica sui giornali. Tanto so per chi voto. Soprattutto, so perché voto».
Perché?
«Ho sempre votato e sono convinto che si debba votare e che nessuna ragione sia sufficiente a giustificare l’astensione, meno che mai una – innegabilmente brutta – campagna elettorale».
Ci sono un sacco di studenti e fuori sede che non vengono messi in condizione di votare.
«E questo è grave. Però, più in generale, dovremmo smettere di dire che non veniamo messi in condizione di votare e cominciassimo invece a dire che non ci mettiamo in condizione di votare. Dobbiamo riconoscere e assumere che mandiamo in Parlamento persone che sono il nostro specchio: condividiamo con loro la responsabilità di quello che fanno e pure di quello che non fanno. Io non mi aspetto granché da nessuno, non ci sono politici che mi accendano, ma ce n’è qualcuno che stimo, e cerco di non dimenticare mai che l’azione di un singolo governante è molto influenzata dal contesto in cui si muove. Viviamo in un mondo dominato dalla finanza e questo condiziona chi governa: pensia a cos’è successo a Tsipras nel quale avevamo creduto in tanti. Non voglio assolvere nessuno, ma mi sembra piuttosto assurdo non vedere che siamo in una morsa. Una morsa in cui la destra sguazza e la sinistra arranca ».
Cosa serve all’Italia per cambiare?
«Se dico una seria lotta all’evasione, una patrimoniale giusta, una politica di regolamentazione dei flussi che parta da un assunto semplice e inderogabile, e cioè che l’altro che arriva è una ricchezza e una possibilità, secondo lei il mio programma conquista la maggioranza? Temo di no, e non conquista nemmeno tanti che pure sarebbero progressisti».
Cosa abbiamo perso?
«La fiducia nel prossimo, che per noi è sempre un problema. Penso alla mia giovinezza: in quella temperie che erano gli anni Settanta, quantomeno si praticava una società più aperta. Ho fatto viaggi che fatico a immaginare che mia figlia, che ha 19 anni, possa fare».
Nostalgia si apre con una frase di Pasolini: “Chi non si è perso non possiede”.
«Ci siamo imbattuti in quella frase io e Favino, mentre lavoravamo al film, e ci ha colpiti perché catturava qualcosa del sentimento del film. Felice, il protagonista, torna a Napoli ed è un uomo che ha una vita soddisfacente, è benestante, ha una moglie intelligente, con cui ha un rapporto alla pari, una bella casa, eppure quando arriva nel luogo che aveva lasciato e comincia a tentare di riappropriarsene, prima di tutto riprendendo a parlare il dialetto, sperimenta uno smarrimento irrisolvibile, tragico. Lo stesso che ho provato io quando abbiamo girato l’ultima scena del film: era notte, mi chiedevo il perché di quell’epilogo così cupo, mi chiedevo cosa ne avrebbe pensato Ermanno Rea se l’avessi cambiato: il film è tratto dal suo libro, Nostalgia. Ma Ermanno è morto tempo fa, e io non ho potuto che girare a occhi chiusi, continuando a interrogarmi».
Eravate amici, lei e Rea?
«Non ci siamo mai frequentati. Ci conoscemmo perché poco dopo il mio primo film, Morte di un matematico napoletano (che sarà presentato in versione restaurata alla Festa del Cinema di Roma, il mese prossimo, ndr), lui pubblicò Mistero napoletano (Feltrinelli): entrambi ci eravamo occupati di due eretici napoletani – io Renato Caccioppoli, lui Francesca Spada – morti suicidi a Napoli. E questo ci unì: era come se fossimo le tessere di uno stesso mosaico. Avevamo età diverse, eppure ci eravamo mossi sullo stesso terreno, nel tentativo di ricomporre qualcosa. Per una scena di Nostalgia, sono andato nel laboratorio di un guantaio che mi aveva indicato il tagliatore di mio padre, che di mestiere faceva il pellicciaio. Lì, ho trovato delle foto che erano state scattate a Ermanno in quello stesso laboratorio, e ancora una volta ho avuto quella sensazione di ricomposizione. È nella ricomposizione che sta la possibilità dell’incontro tra diversi».
Nel cast c’è il grande Tommaso Ragno, che è stato suo allievo.
«Bravissimo. Fece, all’epoca, un saggio in cui recitava Oreste nell’Andromaca di Euripide. In Nostalgia anche il suo personaggio si chiama Oreste: è uno dei tanti fili che in questo film si riallacciano. L’idea che cerco di praticare nel mio lavoro è quella di un tempo orizzontale, quello in cui ci si ritrova, non si smette mai di essere collegati a dispetto degli anni che passano, il tempo in cui a tenere vive le relazioni è la persistenza degli incontri. Con Tommaso è stato così».
I suoi film nascono mentre li fa?
«Comincio un film perché lo vedo. Non significa che so come è fatto: lo vedo, ne ho un’impronta. Da quel momento in poi comincio a mettere a fuoco la visione iniziale e non perdo mai il controllo».
Questo limita la portata creativa degli attori?
«Tutt’altro: non sono il tipo di regista che dice come deve essere intonata una battuta o come deve muoversi un attore. Ma, sulla base della mia visione, cerco di creare dei campi di forza, nei quali le energie creative di chi lavora sul set, e quindi non soltanto attori e attrici, si possano incontrare. Se imposto bene il mio campo di forze, le cose avvengono e avvengono insieme agli altri».
Si sente mai solo?
«Non quando lavoro».
E stanco?
«Più che stanco, spesso mi sento asfissiato dalla mancanza di tempo».
Woody Allen ha detto che, dopo il film che sta girando, non ne farà altri.
«Poi magari, invece, se dio vuole, si ricrede. Sarebbe interessante raccogliere, in una galleria, tutti i film annunciati come gli ultimi della carriera dei rispettivi registi. Non voglio dire che Allen sia inautentico, ma sono sicuro che lui, come molti altri che hanno dato l’addio, possano smentirsi. E che il momento in cui ti smentisci e senti il bisogno di fare un altro film ancora, a dispetto di quello che hai giurato a te stesso e agli altri, sia un momento bellissimo».
Allen ha detto che non gli piacciono più i meccanismi della distribuzione, lo streaming, i cinema vuoti.
«È sempre stato difficilissimo fare questo lavoro, soprattutto in Italia, dove l’arte in generale non è supportata come meriterebbe. Però, il contesto conta quanto la scelta personale: se io dovessi decidere di smettere, sarebbe prima di tutto per via di qualcosa che nasce dentro di me».
Lei non ha mai rinunciato, non si è mai tirato indietro?
«Penso sempre che si debba fare con quello che c’è. E non significa necessariamente fare con poco: alla Scala si lavora con tanto, ma anche questo bisogna riuscire a governarlo. Fare con quello che c’è vuol dire spostare l’asse e l’attenzione artistica dal contesto all’agire personale, di modo che il contesto non ti divori. Io sono un artista fortunato: posso lavorare in tanti ambiti diversi, e soprattutto vivo e mi esprimo in un Paese libero. I registi iraniani che adesso sono in prigione – e che prima di finirci hanno lavorato – sopportano limitazioni pazzesche (prima fra tutte una censura inimmaginabile, che impediva persino che gli attori toccassero le attrici), non si sono mai fatti fermare da quello che avevano intorno. Il mio amico Abbas Kiarostami (regista iraniano morto nel 2016, ndr) mi raccontava che il capo della censura, in Iran, era un uomo cieco: non poteva vedere i film eppure alla fine dava i suoi responsi, del tutto arbitrariamente. Eppure, i registi iraniani hanno fatto cose enormi, meravigliose. Jafar Panahi è stato arrestato a Teheran il 5 settembre scorso e a Venezia il suo Khers nist
«Penso sempre che si debba fare con quello che c’è. E non significa necessariamente fare con poco: alla Scala si lavora con tanto, ma anche questo bisogna riuscire a governarlo. Fare con quello che c’è vuol dire spostare l’asse e l’attenzione artistica dal contesto all’agire personale, di modo che il contesto non ti divori. Io sono un artista fortunato: posso lavorare in tanti ambiti diversi, e soprattutto vivo e mi esprimo in un Paese libero. I registi iraniani che adesso sono in prigione – e che prima di finirci hanno lavorato – sopportano limitazioni pazzesche (prima fra tutte una censura inimmaginabile, che impediva persino che gli attori toccassero le attrici), non si sono mai fatti fermare da quello che avevano intorno. Il mio amico Abbas Kiarostami (regista iraniano morto nel 2016, ndr) mi raccontava che il capo della censura, in Iran, era un uomo cieco: non poteva vedere i film eppure alla fine dava i suoi responsi, del tutto arbitrariamente. Eppure, i registi iraniani hanno fatto cose enormi, meravigliose. Jafar Panahi è stato arrestato a Teheran il 5 settembre scorso e a Venezia il suo Khers nist
( Gli orsi non esistono) era tra i film migliori. Loro incarnano il senso di questo mestiere, lo onorano e dimostrano che si può fare sempre».
Qual è la virtù più importante per un attore?
«La capacità di abbandono».
E per un regista?
«La capacità di abbandono».
Scegliere le viene difficile?
«Sono andato in crisi tutte le volte che mi hanno chiesto di indicare i miei film preferiti, i miei attori preferiti, persino i miei piatti preferiti. Il festival di Pesaro che mi dedicava una retrospettiva mi obbligò: devi dire quali sono i tuoi dieci film del cuore! Risposi d’accordo, vado in ordine alfabetico. E alla A avevo già esaurito la lista: Accattone, Amarcord, Apocalypse now…».
Chi è la donna più bella del mondo?
«Mia moglie Ippolita, naturalmente».