Un film come Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa, in sala in questi giorni – al di là della vicenda, degli avvicendamenti: un morto dopo l’altro; e lei, Maddalena (Elodie), bellezza ctonia, gotica, libera (anche di farti sprofondare irrimediabilmente nel baratro, nella malia del suo sguardo), da una famiglia all’altra, da un uomo all’altro, con tutto il corollario di spaesamento provocato da questo transito, da questa libertà lì nel paese; e di alcuni momenti anche avvincenti tipici del noir: agguati, tradimenti, agnizioni – ti pone di fronte a interrogativi riguardanti la natura, la qualità dell’immagine, proprio la qualità organolettica dell’immagine cinematografica, il che, questo implicito aspetto teorico, giustifica tra l’altro la sua collocazione in Orizzonti di Venezia 79, dove il film ha ottenuto una menzione speciale dalla Fedic.

Quello di Mezzapesa (tradizionalmente sostenuto dalla scrittura di Antonella W. Gaeta), che piaccia o no, è un cinema che spesso forza la naturale distensione del segno, la sua neutralità; sottolinea il segno (cioè le forme, le sagome che si scorgono nel quadro), la sua specifica disposizione nell’inquadratura perché parli, risuoni più che altrove, più di altre volte, anche in un film apparentemente trasparente – qualcuno direbbe anodino – come Il bene mio: una stanza vuota, scalcinata (sineddoche del paese abbandonato, diroccato) colta proprio nel momento in cui una porta sbatte mossa dal vento. Non semplicemente il vuoto, ma uno spazio desolato reso ancora più deserto dal movimento improvviso, inatteso, di uno degli elementi portanti di questo vuoto evocato: il vano, appunto il vuoto, di una porta, ora semovente. Così il movimento svuota la stanza riempendo a dismisura il segno cinematografico, cioè ciò che la significa, e la significa definitivamente: il film in effetti da lì in poi si intratterrà proprio intorno a questa dialettica tra vacuità e pienezza, tra luoghi e linguaggio.

ORA in Ti mangio il cuore in cui peraltro svettano le interpretazioni di due grandissimi attori (Michele Placido e Tommaso Ragno) e di due attrici all’altezza (Lidia Vitale ed Elodie appunto, non solo feticcio pop ed erotico) insieme a una regia consapevole (che modula la materia narrativa e quella più squisitamente iconografica), questo processo di sottolineatura, di sovraccarico del segno cinematografico, è, se possibile, ancora più accentuato, e riconducibile già al primo film di Mezzapesa, Il paese delle spose infelici in cui c’era una ruvidità (anche una morbosità: una sessualità torbida) che contrastava – e si rapportava – con certo struggimento legato alle spose volatili: ed era questo contrappunto, questo espressionismo (la violenza del segno) l’aspetto più interessante del film così come del libro da cui era tratto, tanto più rispetto agli esiti piuttosto blandi dell’ultimo lavoro di Mario Desiati. Si declina, questo espressionismo, nella rasposità delle cotenne dei maiali, nei velli nodosi delle pecore, sui manti delle vacche invischiate nel loro destino di sterco e fango.

ECCO il segno che qui si carica di sostanza significante fino a diventare simbolo, così i maiali indicano le cosche, le faide e le crapule più infime, e magari le vacche – in questo bestiario stercorario e famelico – sono il corrispettivo delle donne, specialmente di Maddalena, nel giudizio sprezzante che ne dà uno dei fratelli del boss dei Camporeale, che accetterebbe l’indennizzo di cinquanta vacche in cambio della vacca-Maddalena. Un bestiario – e un bestiame –; patriarcati e matriarcati – stregonesca Teresa Malatesta (Lidia Vitale) che tasta la maturazione del ventre gravido della giumenta-Maddalena – resi ancora più laidi e violenti dal bianco e nero livido, fosco, che sembra tumefare anche il latte più bianco e il sangue, e paradossalmente schiarire alla fine il nero in cui Maddalena è catafratta, il velo nero processionale, di cui si libera una volta per tutte.