Adesso ha di nuovo una squadra da convincere. E che squadra, la Juventus. Finisce l’agonia di Luciano Spalletti dopo la delusione con la Nazionale. Finisce anche il lamento per sé stesso. Comincia la vita nova calcistica. Il filosofo toscano con il quaderno delle citazioni alla Curzio Malaparte torna in campo con un dolore e una occasione in più. Il dolore di aver sbagliato strategia e linguaggio con l’Italia, ma con l’occasione di registrarsi e riuscire con la Signora d’Italia.
Quello che a Napoli era un monaco guerriero, e a Coverciano un crociato assediato – dai norvegesi e prima dagli svizzeri, senza che potessero arrivare i turchi – ora a Torino potrà sperimentare la Grande Occasione (GO), impensabile per tutti o quasi. Sarà anche la Grande Rivincita in rimonta, risposta, riprova (GRrrr): quindi Go GRrrr.
Ecco Spalletti che dovrà parlare come un fumetto, magari il vecchio Topolino, basta Shakespeare a uomo e basta Machiavelli a zona, perché ha capito che i ragazzi di oggi non sono quelli di ieri, e che sì, le squadre passano, la palla rotola, ma i calciatori peggiorano e sono sempre meno disposti a farsi governare da un allenatore padre, preferendogli l’allenatore amico. Che avrà un compito difficile: far diventare di nuovo un gruppo la squadra che è apparsa sciolta e senza identità.
Dall’Italia alla fucina-Italia
Spalletti prima che allenatore dovrà farsi sarto e ricucire tutti gli strappi di questi anni, provando a fare degli stracci lasciati da Igor Tudor un tailleur che stia bene a Yildiz, Vlahovic e Koopmeiners. Via dubbi, mezze misure, demoni. La Juventus deve ritrovare l’audacia, la forza e il gioco. E Spalletti sa come fare e ha anche più motivi di quelli che aveva in Nazionale. Li ha sparsi in ogni intervista dopo l’esonero da cittì.
A cominciare dal Napoli e da Aurelio De Laurentiis, la colpa ripetuta all’inverosimile è, oltre la marcatura a uomo del presidente napoletano, il non averlo fatto sfilare per le strade della città con un bus scoperto come accaduto ad Antonio Conte dopo la vittoria dello scudetto. E questo racconta che Spalletti è un bambino infinito, in campo e fuori, poi in panchina, invece, è una guida capace di tutto. A Napoli era arrivato da venerato maestro con i titoli in Russia, da Napoli è ripartito come soluzione popolare per la Nazionale dopo aver espresso un calcio assoluto, totale e selvaggio che, però, poi non si è rivisto con la maglia azzurra, anzi, in Nazionale è apparso come la Berta di Rino Gaetano che filava con Gigi (Buffon), filava con Gabriele (Gravina), ma poi nasceva l’Italia di Gennaro (Gattuso).
È curioso che l’allenatore che, dopo Maradona, ha riportato lo scudetto al Napoli, vada a risollevare le sorti, l’identità e il gioco della Juventus – avversario storico dei napoletani e nodo da questione meridionale – il cui blocco calcistico è sempre stato il blocco della Nazionale – non in queste stagioni – quasi che avendogli scippato la Nazionale il disperato Spalletti vada a dirigere quello che era il laboratorio dei calciatori migliori della Nazionale. Dove però troverà una casa da ricostruire, pochi italiani e tutti da recuperare, tatticamente e psicologicamente: Gatti, Cambiaso, Locatelli, con Rugani e Miretti da re-immaginare e verrebbe da dire anche da ri-giocare, e poi ci sono i portieri Perin e Di Gregorio.
Quel tatuaggio sulla pelle
Un po’ poco per diventare la squadra centrale della Nazionale in un gioco di posizione e vendetta, ma un buon inizio per pensare di arrivare in Champions League la prossima stagione, giocando degnamente quella in corso. Accettando di mettersi alla prova, ancora, di nuovo, perché all’uomo Spalletti piacciono le imprese impossibili come portare l’Udinese in Champions, la Roma di nuovo a essere competitiva, l’Inter in Europa e il Napoli allo scudetto.
Alla narrazione è mancata la Nazionale, perché nella vita e soprattutto sul campo non si può risolvere tutto con uno spot di un amaro, come accaduto qualche giorno fa con Francesco Totti, la sfida che è diventata dramma, fiction, farsa, poi è finita in spot. Sembra una poesia di Gianni Rodari, e torniamo al mondo bambino di Spalletti, con le sue pareti di magliette di grandi calciatori, il Subbuteo, le grandi strategie, le ossessioni, e poi i capricci. E il tatuaggio. Quello che certifica su pelle che lui è legato a Napoli, ma la vita non è uno spot. La vita è stronza. E ti porta sulla panchina dell’avversaria del Napoli, emblema del nord contro il sud, sulla panchina che fu di Antonio Conte, anche capitano e cuore juventino che, fino a quando vince viene anche amato, essendo un patriarca non si è mai tatuato gli scudetti che ha vinto anche perché cominciano a essere troppi e con squadre diverse.
Il tatuaggio con lo scudetto del Napoli è anche il racconto di una provincialità sportiva che a Napoli non ha capito di avere una squadra-potere che in pochi anni alla Juventus ha dato il suo capocannoniere del campionato, Gonzalo Higuain; l’allenatore comandante derviscio, Maurizio Sarri, che fa 91 punti e perde uno scudetto che brucia, ma si consacra maestro di pallone arrivandoci da giovane promessa e bordeggiando il solito stronzo; il direttore sportivo dello scudetto, juventino silente e sofferente sotto la tirannide delaurentiisiana, Cristiano Giuntoli; e ora l’allenatore dello scudetto e del bel gioco, Spalletti.
Capovolgimento calcistico
Insomma, se ancora non è chiaro ai napoletani che c’è un ribaltamento calcistico allora c’è un problema di sguardo, ascolto e comprensione. Tutti, però, va detto, consumati a Torino, certo Sarri vince l’ultimo scudetto, ma Spalletti rischia di finire come Nietzsche, se le cose si mettono male, ad abbracciare il cavallo Vlahovic. Perché la Juve ha un problema di gol, pur avendo attaccanti che i gol li facevano prima, come Jonathan David che al Lille segnava tanto, e a Torino gli si è ristretta la porta.
Ma non è solo un problema di gol, ma anche di passaggi che aprono ai gol: un altro nodo per Spalletti sarà il dribblomaniaco Francisco Conceição, da trasformare, recuperare, rimettere al campo e al gioco. Come Locatelli, vagocampista, che pure è un calciatore in cerca di un destino come Koopmeiners che a Torino aspettano come a Napoli aspettano i turisti. Ma l’istanza più forte resta Yildiz, perché ha colpi da Del Piero ma non diventa mai Del Piero.
Si sprecheranno i paragoni con le vecchie squadre e le soluzioni spallettiane, dimenticando che questa è il novo inizio, la restituzione al campo dopo il grande dolore nazionale. E Spalletti sarà diverso, meno filosofico, ancora più ossessivo, molto diretto. L’uomo è conradiano, torna per dimostrare che allenare l’Italia aveva bisogno di tempo e di un altro linguaggio, ma che no, non era sbagliato, anzi. Con l’Italia ha provato a sbizzarrirsi, con la Juve deve formulare le linee generali di una nuova identità calcistica e arrivare almeno terzo contro tre sue ex squadre: Napoli, Inter e Roma, dovendo spintonarsi con Milan e Atalanta.
Una nuova missione per il rigeneratore di squadre che questa volta deve rigenerare anche la sua storia.







