«L’alba del nuovo Medio Oriente», «la fine dell’era del terrore», «la pace dopo tremila anni», insomma «il miracolo», per giunta in mondovisione. Spento il rimbombo delle grandiose formule spese lunedì da Trump sui set allestiti a Gerusalemme e al Cairo, d’un tratto le immagini di quelle cerimonie pacchiane rivelano quel che davvero è cambiato.
Se osserviamo la prima fila del Trump-show, puntata egiziana, vedremo i tre capi di stato ai lati di Trump in qualità di garanti dell’accordo: Erdogan, al Sisi, al Thani. Ciascuno di loro proclama da tempo che la condizione della pace è la nascita di uno stato palestinese. Quanto Israele invece rifiuta.
Il nodo principale
È il conflitto che deflagrerà già nelle prossime settimane nella forma di un problema in apparenza tecnico: chi gestirà l’ordine pubblico nella Striscia, gli aiuti alimentari, i servizi sanitari? Nell’immediato sarà Hamas, non essendovi alternativa. Ma questo comporterà una rischiosa contiguità tra l’esercito israeliano e la milizia palestinese, con tiratori scelti appostati e attivi sui due fronti. Come già ha confermato la morte di cinque sventurati uccisi dagli israeliani perché si erano avvicinati alle loro postazioni, forse soltanto per tentare di recuperare qualcosa tra le macerie di casa.
Diventa perciò urgente schierare, almeno lungo la prima linea, una qualche forza di interposizione, se non già quella Forza di stabilizzazione che secondo il piano Trump dovrebbe sostituire Hamas nel controllo di Gaza. Ma senza l’approvazione di Hamas qualunque militare straniero apparisse nella Striscia, in qualunque ruolo, rischierebbe una pallottola nella schiena.
I britannici hanno già annunciato che non manderanno militari a Gaza: evidentemente non si fidano. Gli egiziani sono disponibili ma ritengono indispensabile che al loro fianco operino i marines americani: però Washington resiste. I regimi arabi manderebbero truppe solo alla condizione che Israele rifiuta: un percorso chiaro per l’indipendenza palestinese. Senza quella garanzia la Forza di stabilizzazione risulterebbe, agli occhi di Hamas, complice dell’esercito israeliano. Non durerebbe a lungo.
Non si annuncia facile neppure mettere in campo una autorità civile palestinese che assuma poteri ora svolti da Hamas nell’ordine pubblico e nella sanità. L’Egitto e la Turchia la vorrebbero espressione dell’Anp, l’attuale Autorità palestinese al potere in parte del West Bank. Israele lo esclude, teme che l’autogoverno palestinese diventi l’anticamera dell’indipendenza. Gli Emirati, il regime arabo più legato ad Israele, preferirebbero veder promossi nel ruolo i ‘suoi’ palestinesi, come Mohammed Dahlan, un gazawi dalla biografia significativa.
Alla fine del secolo scorso era un quadro di Fatah nella Striscia e capo della polizia politica temuta dai militanti di Hamas. Nel 2007, quando Hamas insorse contro Fatah, salvò per miracolo la pelle. Riapparso nel parlamento del West Bank ne fu cacciato con l’accusa di aver rubato tre milioni di dollari e riparò negli Emirati. Tre anni dopo, nel 2019, Ankara lo accusò di aver svolto compiti di ufficiale di collegamento tra lo spionaggio emiratino e ufficiali turchi coinvolti secondo Erdogan in un fallito golpe. Che Dahlan sia o no nella partita, si annuncia un gran lavoro per i servizi segreti mediorientali e occidentali.
Narrazioni sbagliate
I venti tra capi di stato e di governo che fanno da corona a Trump nella foto di gruppo del Cairo sono la prova che d’un tratto la questione palestinese non è più, come appariva ancora due anni fa, una questione interna israeliana, remota, marginale. Ma il fatto che sia stata ‘internazionalizzata’ non implica che sia più maneggevole. Pare complicato perfino attribuire al piano Trump i crismi di una risoluzione del Consiglio di sicurezza: l’Onu non piace alle destre americana e israeliana.
Chi poi tentasse di intuire nelle azioni di Trump una visione, una strategia da cui dedurre le sue prossime mosse, non troverebbe altro che circostanze casuali e l’abilità dell’affarista nel farle fruttare. Trump lasciò che Israele infrangesse il precedente cessate il fuoco, ventimila morti orsono. Revocò le sanzioni ai capi dei coloni, così incitando alla pulizia etnica. E come Netanyahu ha ricordato accogliendolo nella Knesset, riconobbe «i diritti storici» accampati dalla destra israeliana sul West Bank.
Tutto questo non è in alcuna relazione con l’immagine del Trump disegnato in questi giorni dai panegirici del presidente magari brutale ma a conti fatti benigno quale lo raccontano tanti media occidentali. In particolare «la narrazione per la quale ha imposto a Netanyahu il Piano di pace è largamente esagerata», dice a Foreign Affairs Philip Gordon, già consulente della Casa bianca per il Medio Oriente.
Ma certamente Trump è stato abile a sfruttare il concatenarsi di alcune circostanze, non ultima il fatto che proseguire la guerra era diventato troppo rischioso tanto per Netanyahu quanto per Hamas: se gli ostaggi fossero morti, Hamas avrebbe perso l’unico asset che gli era rimasto per garantirsi una via d’uscita; e Netanyahu avrebbe dovuto affrontare le prossime elezioni sotto le maledizioni delle famiglie degli ostaggi uccisi.
Nessuno ora può prevedere se Trump impedirà al governo israeliano di sfruttare gli infiniti pretesti che il cessate il fuoco offrirà per rifiutare di ritirarsi dalla Striscia. Ma gli ottimisti possono sperare nella sua pochezza umana. Avendo investito nel suo piano di pace l’immagine del Re taumaturgo che guarisce l’intrattabile piaga mediorientale, forse davvero si darà da fare per evitare la catastrofe.