A monte di ogni scelta collezionistica ci possono essere varie spinte: un’attrazione fulminante oppure ore di studio, un progetto critico o il prolungamento di un piacere estetico; a volte l’acquisizione di un oggetto è la risposta a un bisogno che può diventare imperioso, sordo alla ragione, un’ossessione che tace solo se ricompensata. Il possesso è quasi sempre un’opzione consolatoria, che riempie – transitoriamente – un vuoto (di tempo, di spazio, non per forza emotivo). Gli oggetti diventano così un prolungamento tentacolare dell’ego: pezzi di noi selezionati, da apparecchiare sul tavolo dell’esistenza per rappresentarci in presenza, in assenza, in vita e dopo la morte.

Secondo Mario Praz «gli oggetti possono deluderci a volte, gli uomini sempre». E guardando alle composizioni regolate di quadri, mobili e manufatti della sua casa romana, Praz era convinto ci si dovesse sforzare di «capire i loro sorrisi, le loro lacrime, il loro silenzio». Ma non è solo l’ordinata messa in scena di un proprio mondo a dare sollievo; ci può essere un accumulo caotico e vorticoso, sempre in mutamento, com’era nell’appartamento dei Boschi di Stefano a Milano, pieno di gatti, cineserie e capolavori accumulati senza respiro.

Ogni caso è un’eccezione, così come ognuno è diverso; ogni caso insegna tanto sul collezionista quanto su ciò che gli sta intorno. Anche nelle case di Gian Enzo Sperone ci si chiede cosa stia dietro alle scelte. Cosa tiene insieme un ritratto di Nicolas de Largillière, un paesaggio di Massimo d’Azeglio, una miniatura indiana e una scultura di Athos Ongaro? O Giovanni Anselmo con Andrea Appiani e Defendente Ferrari? L’effetto galleria d’arte (in fondo, Sperone è un gallerista) svanisce subito. Dalla prima sala della mostra L’uomo senza qualità. Gian Enzo Sperone collezionista (al Mart di Rovereto fino al 3 marzo, a cura di Denis Isaia e Tania Pistone, due cataloghi: SilvanaEditoriale e la Grafica, Mori, Trento) quello che risuona splendidamente è l’intreccio. Non ci sono opere che galleggiano in un white box, ma un continuum di esperienze e vita che echeggia da una cornice all’altra, da una parete all’altra, da uno scaffale all’altro, dove i colori fluo delle pareti e gli oggetti si mescolano come in un caleidoscopio.

La citazione da Robert Musil nel titolo contiene ovviamente un vezzo: non si diventa uno dei più importanti galleristi tra Europa e Stati Uniti, dai sessanta in qua, senza avere qualità; allo stesso tempo ci dice quanto, in un momento in cui regnano contraddizioni – ora come ai tempi di Musil, quando, per usare le parole dello scrittore, «si amava il superuomo, e si amava il sottouomo; si adorava il sole e la salute, e si adorava la fragilità delle fanciulle malate di consunzione» – la vera qualità sia nell’indeterminatezza. I valori prestabiliti si possono ridefinire con nuove e sempre mutevoli connessioni. Nel mondo di Sperone, nel mondo dell’arte, significa guardare oltre le presunte certezze dei grandi nomi.

L’andamento altalenante del mercato dimostra come le azioni di un artista che salgono, magari in modo spropositato, si possono polverizzare appena gira il vento, ma anche come la concentrazione di risorse sui titoli più sicuri escluda un panorama amplissimo di possibilità. Così, dopo decenni sulla giostra del contemporaneo, Sperone ha imparato a rifugiarsi nell’antico. O meglio, nelle quasi infinite possibilità combinatorie che offre il multiforme mercato antiquariale, soprattutto se si escludono, anche qui, vette note e (economicamente) irraggiungibili.

Infine c’è il racconto, quasi fiume, che può appoggiarsi all’aneddoto storico o alla memoria del vissuto. I quadri e le sculture raccontate da Sperone sono collages di passato e presente, una Recherche dove la vita del protagonista si confonde in quelle degli artisti, dei santi martiri, dei cavalieri, dei duchi, dei conti, dei principi e dei cardinali appesi sulle pareti di casa. Non manca il gioco, nella mescolanza erudita, high and low, tra vecchio e nuovo, bello e brutto, quasi in una satira dell’effimero.

In tutto risuona infatti un’ironia che può cedere al grottesco o al macabro o al kitsch («ecco, vorrei riempire la parete dietro al letto di quadri con martirii, come buon auspicio»), tra motti di spirito e serissime considerazioni sullo stato, sull’attribuzione o sul prezzo di una scultura o di un quadro. Si capisce anche che Sperone sa destreggiarsi bene in questo sport delle contraddizioni, distinguendo genialità (vera o presunta) e mediocrità, valori (veri o presunti) e qualità oggettive, eccentricità e poesia. L’esperienza da gallerista gli ha insegnato che il ritratto dell’artista demiurgo solitario avulso dalla realtà concreta delle bollette e dei cachet calza addosso a pochissimi eletti; così il mito dell’eroe. Sono sempre più importanti le reti relazionali, «il tessuto della storia» grazie al quale anche i mediocri qualche volta eccellono esprimendo, per quanto più possono, qualità.

In alcune delle sale della mostra del Mart l’osservazione dev’essere più lunga, con una concentrazione quasi spirituale: sui fondi oro, sulle stampe, nel silenzio ideale delle opere di Giulio Paolini, nella sacralità di Richard Long. Ci sono poi sezioni dove si ragiona sui concetti (come nel visibile Invisibile di Anselmo), e altre in cui si attesta tutta l’abilità del gallerista-collezionista che anticipa o corre in parallelo agli studi e alla critica: lo dimostrano le composizioni polimateriche di Prampolini e, sulla parete di fronte, le geometrie astratte di Radice, Reggiani, Rho, Soldati, Veronesi, a cui viene naturale far corrispondere, a pochi passi e con un salto in avanti di mezzo secolo abbondante, due grandi opere dell’americano Peter Halley.

Di là, nell’impressionante colpo d’occhio della Galleria dei ritratti, il sistema da vecchia quadreria, con i dipinti accostati fino a saturare la parete, è rivisitato. Comandano le dimensioni, in un saliscendi quasi musicale la Dora Maar di Picasso del ’43 sta sotto il Guillaume Marie-Anne Brune di Appiani – e siamo negli ultimissimi anni del Settecento –, sopra un bellissimo autoritratto a sanguigna di Carlo Maratti, 1681-’82, al Giovane di Michele Tosini, all’autoritratto di Salvo del ’69 e all’Ufficiale con fiocco giallo di Ferdinand Voet, 1680 circa, eccetera eccetera, tra dipinti di artisti noti, minori e anonimi.

Poco dopo c’è un’accoppiata che sa di autoritratto: il manifesto di una collettiva nella sua galleria romana, con la foto di Sperone che finge di fare a botte, sta accanto a una Rissa data a Giacomo Ceruti. Poi una Galleria delle figure, con una parete che inizia con una Maddalena del Cigoli e finisce col Bacco e Arianna di Domenico Fetti; di fronte Schifano; di là la sala dedicata alla pittura (e alla Transavanguardia, di cui Sperone è stato tra i primi e più importanti sostenitori) e le Tribune su cui Eraclito e Democrito di Antonio Gai – dove il marmo sembra cera e le espressioni dei corpi, specchio della condizione umana, sfociano in un grottesco quasi comico – introducono un’infilata di busti antichi e sculture moderne e contemporanee, e quindi alla penultima stanza dove si sente un miscuglio di bizzarria, avanguardia e sperimentalismo come in una Wunderkammer.

Il maiale impagliato e tatuato di Wim Delvoye, l’inquietante iperrealismo del rettile di ceramica policroma nell’Astratto di Bertozzi & Casoni stanno insieme come i naturalia e gli artificialia delle stanze delle meraviglie cinque-seicentesche, come bezoar, coccodrilli imbalsamati e denti di narvalo contemporanei.

Nel finale la poesia, con Gino De Dominicis. Nel Tentativo di volo (1970) l’artista apre e chiude le braccia come fossero ali: «ripeto questo esercizio tutti i giorni. Probabilmente non riuscirò mai a volare, ma se farò ripetere questo esercizio anche ai miei figli ed ai figli dei miei figli e loro ai propri figli, forse un giorno un mio discendente improvvisamente si troverà a saper volare». Un auspicio per il futuro. Con un p.s. del collezionista, da leggere prima di scendere le scale: le passioni sono state coltivate «con il solo desiderio di lasciare un segno di ineffabilità». Queste sale, riempite con circa quattrocento opere, sono quindi le prove generali di un museo.