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NUOVO CINEMA MANCUSO
Educazione tarantiniana
Dice Ted Sarandos – il gran capo dei contenuti Netflix – che andare al cinema è roba del passato. La gente i film li vuole vedere a casa, comodi sul divano (e con bibite, popcorn, altri generi di conforto leciti o illeciti pagati a prezzo da supermercato).
Proprio accanto, nella versione online del Guardian, era impaginato un pezzo intitolato “I miss those days terribly”. I bei giorni perduti, per il lettore intervistato, sono i giorni trascorsi in videoteca. Neanche al cinema: tra gli scaffali dei dvd – gli stessi su cui Sarandos ha puntato il piedino per il gran salto. La grande idea era non dover restituire cassette e dvd, in ritardo pagando le penali – Donald Trump direbbe “dazi”. Bastava una busta con scritto Netflix, e poi nella cassetta della posta.
L’impaginazione è crudele – al momento attuale, certe cose impiegano poco tempo a cambiare, ma il ritorno dei dvd a noleggio non sembra imminente. Il grilletto della nostalgia è scattato per l’apertura di video-store a Brooklyn. Uno dei primi clienti ricorda ancora le copie pirata WHS – fabbricate dal gestore del negozio. Per le copertine, la fotocopiatrice a colori.
Usava il venerdì Blockbuster, negli anni 90. Uno racconta: “Cassette di birra, e il più stupido film horror che riuscivamo a trovare. Ridevamo fino alle lacrime”. Un altro giovanotto ricorda di aver lavorato in un video-noleggio durante gli anni del college, dal 2004 al 2008. Non aveva anche l’insegna di una catena, era un negozio famigliare. Il migliore dei miei lavori, ricorda: “Mettevo le cassette nel televisore, nell’angolo in alto del negozio, sistemavo gli scaffali a gusto mio, leggevo le riviste specializzate, mi portavo a casa i manifesti migliori. E davo consigli personalizzati”.
Quentin Tarantino, con maggiore maniacalità, faceva lo stesso lavoro (e appena ha l’occasione racconta qualche episodio). Da venditore, consigliere, ma soprattutto studioso enciclopedico che intendeva avviarsi all’arte. Non è da tutti. Infatti nessuno è bravo come lui – se e quando deciderà di concedersi ancora. Le ultime notizie riferiscono che il regista aspetta a fare il suo film numero 10 finché i suoi figli saranno grandi abbastanza per poter ricordare di aver visto come si fa il cinema. Magari, lascia cadere, farò un po’ di teatro. La piccola ha quasi tre anni, il grande ne ha cinque – continua. Quando sono a Tel Aviv, sono solo un padre – e dice “abba”, in ebraico.
I nostalgici del dvd continuano i racconti: “I primi li noleggiavo alla stazione di servizio Mobil, c’era una discreta scelta. Ricordo mia madre che si avvicinò al divano con un vassoio di panini ripieni per merenda. Sullo schermo, un tipaccio mangiava una gallina viva”. L’educazione tarantiniana ha i suoi perché.
LOVE
di Dag Johan Haugerud, con Tayo Cittadella Jacobsen, Andrea Bræin Hovig, Lars Jacob Holm
Secondo
capitolo di una trilogia norvegese dedicata alle relazioni: “Sex, Love, Dreams” (in questo ordine, da oggi è nei cinema il capitolo “Love”). Comincia in ospedale, reparto di urologia. Ci lavora Marianne, una dottoressa attorno ai 40 anni, non sposata né fidanzata – al momento, ma se interrogata teorizza questa sua condizione. Nessuno per casa e gli amanti vanno via la mattina presto, portando giù la spazzatura. Non sfugge però all’amica del cuore che le propone appuntamenti al buio: l’ultimo è disastroso, fuori città, con un divorziato che vive pochissimo distante dall’ex moglie. Sul traghetto, incontra all’andata e poi incontra di nuovo al ritorno un infermiere del suo reparto. Piuttosto fascinoso, fa avanti e indietro sul traghetto perché “è perfetto per tinder”: se segnala la presenza di qualche giovanotto interessato lo hai a portata di qualche passo, non devi girare per la città (parola di infermiere, che da maschio, stabilita la confidenza, dà qualche consiglio alla dottoressa in materia di prostata – sono norvegesi, non si fermano davanti a nulla, e questo era il capitolo sull’amore). “Sex” arriverà nelle sale – pochine, bisogna cercarle – il 15 maggio prossimo: sono le confidenze di due maschi, “Dreams” è uscito in sala il 13 marzo scorso, racconta un ragazzino diciassettenne innamorato della maestra e il suo diario. Benissimo girati, e pure ben scritti, se avete la pazienza di stare alle basse velocità nordiche.
LA FOSSA DELLE MARIANNE
di Eileen Byrne, con Luna Wedler, Edgar Selge, Willie Vonnemann
In
viaggio con l’urna, un genere che non delude mai. Ormai la bara non usa più, al cinema le ceneri nella boccia risultano più maneggevoli. Il viaggio con il morto – la morta, in questo caso – va in direzione Trieste, dalla Germania. In camper. A bordo, il proprietario borbottone e una ragazza: si sono incontrati al cimitero, lui era lì per disseppellire l’urna, lei era lì perché da quando il fratello minore è morto non riesce più a fare altro. Si tormenta, riflette, passa in rassegna i sensi di colpa, sogna di sprofondare nella Fossa delle Marianne. Dal romanzo di Jasmin Schreiber, biologa e scrittrice, abbiamo la strana coppia Helmut e Paula, su un camper che a Helmut e consorte serviva per le vacanze italiane. Paula non riesce nemmeno per un momento a dimenticare il lutto. Sarà compito del bizzarro viaggio, con cane e gallina, che inizia con l’imperativo, da parte del vecchio, “teniamo le distanze” – quando sanno appena il nome l’uno dell’altro. Cercano di bruciare la fila in dogana, lui si finge moribondo quando fa comodo, i battibecchi sono sempre di ottima qualità. Gli attori sono bravi. Lo sforzo economico e produttivo è ridotto al minimo, servono le idee. E un po’ di brio, e un po’ di scorrettezza. In Italia, l’attore Nicola Nocella, e il regista Andrea Magnani: “Easy – Un viaggio facile facile” era un viaggio con il morto (immigrato clandestino). Tornando a “La fossa delle Marianne”, la voce fuoricampo – il tormento interiore, se preferite così – è troppo invadente.
I AM MARTIN PARR
di Lee Shulman, con Martin Parr (e la classe media britannica a casa e in gita).
Se vedete una bella fotografia – una fotografia, non un selfie – con gli inglesi al mare, il vento che soffia e nuvole che da noi sarebbero considerate invernali, di sicuro l’ha scattata Martin Parr. 72 anni, da sempre una passione – rubiamo le parole a Paolo Conte – per gli inglesi in gita. Anche se sono sempre troppo grassi, troppo goffi, anziani spaesati che si muovono con un po’ di fatica. Ora tutta Venezia, pure Firenze e Roma e qualsiasi località turistica ne è stracolma, un fotografo “dall’occhio crudele” – la definizione è del Guardian – non saprebbe cosa inquadrare. Di quegli anni fa nostalgia anche la carta oleata, e i bambini con il gelato spiaccicato sulla maglietta. I selfie hanno fatto danni, dicono un po’ tutti e per vari motivi. Uno soprattutto ci addolora: l’abbondanza di immagini vacanziere le renderà inutili come documenti d’archivio: i documentari su certe vecchie glorie rockettare non di primissimo piano potevano sfruttare solo poche immagini, e andava bene così. Per il resto, serviva un regista che sapesse fare bene il suo lavoro. “Ho messo insieme un archivio dei miei anni in Gran Bretagna”, dice Mr. Parr. Nel documentario, i commenti vanno da “kitsch” a “genius”. Lui continua a scattare, mentre passeggia aiutandosi con il deambulatore. Nel documentario vediamo i suoi primi scatti in bianco e nero e ritroviamo le atmosfere e le immagini di tutto il cinema inglese, realista e pop.
QUEER
di Luca Guadagnino, con Daniel Craig, Drew Starkey, Jason Schwartzman, Leslie Manville
E’arrivato
finalmente, abbiamo cambiato la data del file fino a esaurimento (nervoso: lo aspettiamo dalla Mostra di Venezia, e anche da prima); poi noi lo abbiamo visto con molto godimento, ma al momento di consigliarlo è sparito dai calendari. Perché adesso, e non tre mesi fa, non lo sapremo mai. Sono misteri poco gloriosi: un po’ di timore – il film è esplicito, ma quel tanto che era necessario per giustificare una passione carnale, laggiù nel Messico degli anni 50. Ricostruito a Cinecittà da Stefano Baisi, con meraviglioso effetto straniante: nei film realistici sombreri e mariachi sono sempre un po’ da cartolina, e allora tanto vale che ci sia veramente la cartapesta (si fa per dire, nessuno si offenda: il risultato è magnifico). Timore per il ristretto richiamo di un film intitolato “Queer”, che ora sta anche sulla copertina di Adelphi, dopo un “checca”, che pareva più timido: il fatto è che nei decenni cambiano anche gli eufemismi – e ora a dire “Queer” certo non viene in mente l’ex James Bond Daniel Craig. Sudaticcio, non sempre in sé, entra perfettamente nel ruolo: un americano all’estero (un po’ per amore un po’ per forza, aveva ucciso la moglie giocando a Guglielmo Tell, in una serata molto alcolica con una balestra vera). Innamorato perso di un giovanotto bello e sexy che un po’ si concede e un po’ no – fanno un patto settimanale. Prendono l’ayahuasca, che non libera affatto la mente: l’esercito americano la sperimentava per il lavaggio del cervello.