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NUOVO CINEMA MANCUSO
Le avventure di Mr. Stamp
Bello, bravo, sexy e nato nell’epoca giusta. Prima di lui, il figlio di un genitore che guidava i rimorchiatori, con la sua bella parlata cockney, non aveva speranze di diventare attore. Non al cinema e meno che mai a teatro, dove Terence Stamp ebbe la parte di “Alfie”, nella pièce di Bill Naughton: autista di limousine con un debole per le clienti, che corteggia e seduce. Se proprio le cose si mettono male – lo fa con tutte – ricorre all’arma segreta: un mazzolino di fiori. Dimenticate il remake con Jude Law, non era all’altezza di nulla.
Quando la pièce fu adattata per il cinema, il giovane Mr. Stamp gentilmente declinò, e suggerì al posto suo l’amico Michael Caine. Che se la cavò benissimo, ma intanto il generoso coinquilino aveva colto al volo l’occasione di recitare nel “Collezionista” di William Wyler, tratto dal romanzo di John Fowles, scrittore e saggista inglese allora piuttosto noto.
Ruolo e copione su cui oggi nessun produttore investirebbe una sola sterlina. Figuriamoci un agente, mica il mestiere consiste nel fare film artistici che poi vengono travolti dalle polemiche. Ma era il 1965, piena Swinging London. La storia di un impiegato municipale che dopo aver vinto alla lotteria decide di rapire la bella Samantha Eggar, e di tenerla prigioniera in uno scantinato convinto che lei finirà per amarlo, con le buone o con le cattive, si poteva scrivere, mandare al festival di Cannes, e Terence Stamp poteva vincere il premio come migliore attore.
Non male per un giovanotto che lavorava in agenzie pubblicitarie, e che decise di darsi alla recitazione dopo aver visto James Dean in “La valle dell’Eden” (anno 1955, romanzo di John Steinbeck e regia di Elia Kazan). Nomi grossi anche per il primo film, dove Terence Stamp aveva recitato con i capelli schiariti per avere l’aria angelica. Era “Billy Budd”, dal racconto di Herman Melville: un giovane marinaio – “gabbiere di parrocchetto”, quelli che lavorano in cima agli alberi della nave – condannato a morte per aver fomentato un ammutinamento.
Ebbe il suo periodo italiano, con Federico Fellini che lo volle in “Toby Dammit” e Pier Paolo Pasolini che gli caricò sulle spalle il peso – e l’assurdità – di “Teorema”, nuovo angelo sterminatore. Lavorò per Ken Loach nel film “Poor Cow”, anno 1967: classe operaia britannica, corna, figli che arrivano senza che nessuno li abbia desiderati. In tempi più recenti, per Steven Soderbergh fu “The Limey” – spregiativo per indicare gli inglesi: un uomo che esce dal carcere, e cerca di ritrovare la figlia. Il nostro non aveva messo su una ruga, gli occhi erano sempre azzurri come ai tempi delle due fidanzate celebri: Julie Christie e la modella Jean Shrimpton, che per lui lasciò il fotografo David Bailey.
MONSIEUR BLAKE – MAGGIORDOMO PER AMORE
di Gilles Legardinier, con John Malkovich, Fanny Ardant
Romanziere
di gran successo in Francia – romanzesca anche la nascita: nel 1965 qualcuno lo abbandonò, neonato, davanti a una chiesa parigina – da dieci anni Gilles Legardinier sognava di dirigere un film. La sceneggiatura era pronta, ma i registi interpellati a uno a uno declinavano l’incarico. Invece di prenderlo come un segno – se il mondo ti dice di lasciar perdere, lasciar perdere è una saggia decisione – lo scrittore decise il gran passo verso la regia. Non abbiamo letto nessuno dei suoi libri, quindi non sappiamo se l’orrenda battuta “se parli, ti depilo” – indirizzata al gatto persiano della tenuta di Beauvilliers, dove John Malkovich viene scambiato per un maggiordomo – sia imputabile al romanzo, al film, oppure al doppiaggio italiano che una ne fa e cento ne pensa. In realtà, è un uomo d’affari britannico che ha appena disertato il premio “imprenditore dell’anno”. Addolorato dopo la morte della moglie, conosciuta appunto a Beauvilliers, parte per la Francia. Per entrare nella villa in declino, dove ora la vedova Fanny Ardant vive con la cuoca Odile, suona il campanello e viene scambiato per il maggiordomo in prova. Prodigo di massime e di buon senso, insegna a tutti che “i problemi sono meno pesanti se condivisi”. Per esempio, la gravidanza della giovane cuoca e governante Odile, l’attrice Émilie Dequenne che aveva debuttato in “Rosetta” dei fratelli Dardenne, Palma d’oro a Cannes nel 1999. Morta a poco più di 40 anni, lo scorso marzo.
WARFARE – TEMPO DI GUERRA
di Alex Garland e Ray Mendoza, con Will Poulter,
Terence Stamp e Samantha Eggar in una scena de “Il collezionista” (1965), diretto da William Wyler e tratto dal romanzo di John Fowles (Getty)
D’Pharaoh Woon-A-Tai, Cosmo Jarvis
Un regista attratto dalla guerra – prima di questo film aveva girato “Civil War”, con Kirsten Dunst, esperta reporter con molte guerre alle spalle, e Cailee Spaeny che l’ammira e vorrebbe imparare (Eva contro Eva, dalle tavole del palcoscenico ai campi minati è uguale). Attraversano gli Stati Uniti lacerati da una moderna guerra civile, vorrebbero raggiungere il presidente che sta asserragliato nel suo bunker. Ray Mendoza, ex Navy SEAL, che a quel film aveva lavorato come consulente (nel frattempo ha messo a frutto la sua esperienza organizzando molte altre scene di guerra sui set di Hollywood) raccontò a Alex Garland una sua storia privata. A Ramadi, in Iraq, dove i soldati americani da tre anni cercavano le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, salvò la vita a un suo commilitone che si era rifugiato presso una famiglia irachena. L’abitazione era sciaguratamente a poca distanza da un gruppo di soldati di al-Qaeda, che stavano accampati aspettando il momento propizio per rivelarsi e fare una strage. Era la storia che Alex Garland andava cercando. Basata sui ricordi dell’ex Navy SEAL, senza una vera trama, trasporta lo spettatore in mezzo al caos, la polvere, il fracasso dei combattimenti. Quelli veri, non le battaglie del cinema di una volta: dal Vietnam in poi tutto è cambiato. Fatti, per chi combatte, anche di noia, ravvivata da un video musicale e da un improvvisato balletto con i mitra imbracciati.
L’ULTIMO TURNOdi
Petra Biondina Volpe, con Leonie Benesch, Sonja Riesen, Selma Aldin, Alireza Bayram, Ali Kandas
Ospedaliero.
Svizzero e tedesco.
Lo si capisce anche dal fatto che neppure nei momenti di grande affollamento tengono la gente nei corridoi. Ogni malato è nel suo letto, tranquillo come si può essere in un reparto di chirurgia al massimo della capienza. Il personale – sempre scarso rispetto al bisogno – deve correre qua e là. Abbiamo visto con i nostri occhi, in un ospedale svizzero dai lunghi corridoi, suorine indiane che si spostavano in monopattino. Qui abbiamo Floria, infermiera che si divide tra i vari pazienti in un turno di notte particolarmente faticoso. “Eroina” – femminile di eroe – era il titolo originale del film. La nostra bada a una madre gravemente malata e a un anziano che attende con un bel po’ di nervosismo la sua diagnosi. La regista svizzera ha vinto il premio Nora Ephron e un premio del pubblico al Tribeca Film Festival. “L’ultimo turno” è stato il candidato della Svizzera agli Oscar, fotografato con il massimo del gelo asettico da Judith Kaufmann e arricchito – quanto a malessere – dalla colonna sonora di Emilie Levienaise-Farrouch. Alla fine, irrompe la dura realtà: pur non ricoverando i malati nei corridoi, e con un livello di ordine e pulizia impensabile in certi ospedali d’Italia, si calcola che in Svizzera nel 2030 mancheranno trentamila infermieri qualificati. L’incidenza del burnout è tale che un infermiere su tre lascia il posto di lavoro nel giro di quattro anni.
LOCKED – IN TRAPPOLA
di David Yarovesky, con Anthony Hopkins, Bill Skarsgård, Navid Charkhi, Michael Eklund
Attore
sceneggiatore fotografo produttore e regista di talento. Ecco Mariano Cohn, argentino: uno che al cinema sa fare tutto, con originalità e bravura. Lo ricordiamo per i molto pregevoli lavori in coppia con Gastón Duprat. Per esempio “Finale a sorpresa” – il titolo originale era “Official Competition”, vale a dire l’etichetta che contrassegna i film selezionati ogni anno per il festival di Cannes. Proprio a Cannes i due geniali registi presentarono il loro film che sfotteva i divi, gli attori di teatro che se la tirano, i vezzi recitativi degli uni e degli altri, le registe femministe e d’avanguardia. Notevole anche “Il cittadino illustre”: uno scrittore premiato con il Nobel torna al paesello natío e invece degli onori raccoglie antipatia (di chi non si ritrova nei suoi romanzi) e odio (di chi nei romanzi si ritrova e non si piace per nulla). Mariano Cohn in solitario ha congegnato il thriller – questo è il remake in lingua inglese – che acchiappa lo spettatore con esche infallibili: la claustrofobia e la vendetta. Piove senza sosta, in una città americana mai nominata. Eddie Barrish, l’attore Bill Skarsgård, ha un furgone scassato e non ha i soldi per farlo riparare. Ma in fondo che ci vuole, al cinema è facile: ruberà una macchina. Sceglie il bolide di Anthony Hopkins. Super accessoriato, le porte che si bloccano imprigionando il malcapitato. E il proprietario, sadico, gioca con lui al gatto con il topo.