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Truffare agilmente Netflix
Come rubare a Netflix 11 milioni di dollari e vivere felici. Almeno per un po’. Non è – ancora – una serie o un film Netflix: per ora è vita vissuta, in attesa di uno sceneggiatore all’altezza. Verrebbero in mente i fratelli Joshua e Benny Safdie, che insieme avevano girato “Good Time” con Robert Pattinson: un piccolo criminale fa una rapina assieme al fratello minore Nick, abbastanza disabile per essere un problema e non un complice. Ma non lavorano più insieme, Benny da solo ha dedicato un film al campione di Arti Marziali Miste Mark Kerr (Dwayne “the Rock” Johnson, sulla via dell’Oscar).
Non divaghiamo. Il furto di 11 milioni di dollari a Netflix è la storia – vera – di Carl Rinsch, regista e sceneggiatore britannico. Il 19 agosto scorso era atteso a processo in un tribunale di New York. Non aveva i soldi per pagarsi il volo di andata e ritorno – da West Hollywood – e neppure il più pulcioso degli alberghi.
Le prove e i testimoni sono tutti contro di lui. Ha scroccato a Netflix la bella sommetta di 11 milioni di dollari. Li ha spesi tutti: criptovalute, orologi, una Ferrari, cinque Rolls Royce e un avvocato matrimonialista celebre (era nel mezzo di un divorzio complicato).
Scrive il mensile francese Première, ed è grande verità in ogni truffa: stupisce l’ingenuità dei truffati. Netflix voleva i diritti di una miniserie fantascientifica intitolata “Conquest”, scritta da Carl Rinsch e dall’allora sua consorte. Mise sul piatto la bellezza di 61 milioni di dollari – cifra esagerata, ma bisognava vincere la concorrenza di Amazon Prime.
Sembrava cosa fatta, durante la pre-produzione è arrivato il covid. Rinsch ha cominciato a mandare mail deliranti alla troupe. Diceva di aver scoperto la meccanica del contagio, e di sapere esattamente “dove il fulmine sarebbe caduto”. Vittima anche lui della solitudine casalinga? Sarà questa la sua linea di difesa, fin da quando è stato arrestato nel marzo scorso.
Non sarebbe stato in sé, lucido, in grado di intendere e di volere quando ha chiesto – e ottenuto – da Netflix un supplemento di 11 milioni di dollari rispetto al budget. Siccome oltre a essere regista era anche produttore della miniserie, i soldi sono arrivati su un conto di cui poteva disporre. Intanto aveva cominciato a girare. E a sospettare che la moglie avesse pagato un sicario per eliminarlo.
La troupe si era accorta delle crisi di paranoia, della droga, dei pugni dati al muro. Ma questo disastro – a differenza degli 11 milioni extra – sarà coperto dall’assicurazione. L’ex protetto di Ridley Scott, in predicato per dirigere “Alien” numero 5, passerà probabilmente il resto della vita in galera – o in manicomio. Di certo l’ex moglie non lo andrà a trovare per portargli le arance.
UNA BATTAGLIA DOPO L’ALTRA
di Paul Thomas Anderson, con Leonardo DiCaprio,
Sean Penn, Regina Hall, Chase Infiniti
Strepitoso.
Un film di quelli veri, pieno di storie e personaggi, di parole e di azione, di nostalgia e di rivoluzione. Dirige Paul Thomas Anderson, il genio di “Magnolia”, di “Ubriaco d’amore”, di “Il filo nascosto” e dello sfortunato “Licorice Pizza” che attirò pochi spettatori (non c’entra con la pizza all’ananas: sono i vinili, e con quel nome c’era un negozio a San Francisco). L’accoppiata di P. T. Anderson con Thomas Pynchon potrebbe preoccupare: il primo tentativo, “Vizio di forma” era bello da vedere e poco comprensibile, la parlata californiana non aiutava l’intricata vicenda. Qui il regista è entrato nella fase classica, sempre partendo da Thomas Pynchon – dal romanzo “Vineland” per la precisione. Leonardo DiCaprio è Bob Ferguson, negli anni rivoluzionario e attivista per i diritti civili, French 75 è il nome del suo gruppo. Hanno una parola d’ordine per identificarsi al telefono, ma è così complicata che Bob ormai invecchiato non la ricorda. Neanche quando è davvero in pericolo. Da anni ormai vive in una casupola vicino al confine con il Messico, con la figlia Willa, avuta da una militante di colore morta in battaglia. Ragazzo padre, vive davanti alla tv. Finché il vecchio nemico – il colonnello Lockjaw, che significa “tetano”: Sean Penn bravissimo – si mette sulle sue tracce. E’ un feroce razzista, segretamente attratto dalle donne nere. L’allarme suona, e Bob va alla guerra con la vestaglia addosso. Imperdibile.
LA FAMIGLIA LEROY
di Florent Bernard, con Charlotte Gainsbourg, José Garcia, Lily Aubry, Hadrien Heaulmé, Louisa Baruk
Veloci
passano i momenti della felicità. Corteggiamento. Chiacchiere sulla panchina. Ricerca della casa dove andare a vivere. Pareti della camera da letto dipinte di rosa. I figli Loreleï e Bastien ormai sono cresciuti e se ne andranno di casa. La splendida cinquantenne Charlotte Gainsbourg annuncia al meno splendido consorte José Garcia la volontà di divorziare. Lui, Christophe, cade dalle nuvole: proprio non capisce perché la moglie sia scontenta. Carica la famiglia in macchina per un fine settimana d’addio (ma lui spera che non sarà l’ultimo). Il primo appartamento, il piccolo ristorante della proposta di matrimonio, i luoghi delle passeggiate, perfino la stazione di servizio dove mangiavano i panini e facevano benzina. Il viaggio coatto ha momenti tragici e momenti solo imbarazzanti – non pareva una buona idea fin dell’inizio. Niente somiglia al passato. La trattoria è più squallida, anche se ora ha le luci al neon. La vecchia casa è occupata da gente scorbutica. Il regista, classe 1991 ma pare più antico e nostalgico, faceva parte del collettivo comico Golden Moustache e conduce il podcast FloodCast. Debutta qui come regista e sceneggiatore con qualche idea originale. Sbaglia però completamente il cast: la coppia Charlotte Gainsbourg e José Garcia non ha un’ombra di chimica, probabilmente al di là delle intenzioni. Errore fatale, per un regista. Fatichiamo davvero a credere che i due siano mai stati una coppia.
IL PADRE DELL’ANNO
di Hallie Meyers-Shyer, con Michael Keaton, Noah Fisher, Mila Kunis, Laura Benanti
La regista è figlia d’arte. Mamma Nancy Meyers – regista di “Quello che le donne vogliono”, “Tutto può succedere”, “E’ complicato”, per citare solo i migliori (“Lo stagista inaspettato” sfruttava soltanto l’età non più verde e la simpatia di Robert De Niro). Il padre Charles Shyer, morto a dicembre dell’anno scorso, era il regista de “Il padre della sposa” – nel 1980 aveva vinto un Oscar per “Soldato Giulia agli ordini” con Goldie Hawn, condiviso con la consorte Nancy Meyers. Con mano felice, la rampolla sceglie come protagonista Michael Keaton, indimenticabile in “Birdman” di Alejandro Gonzáles Inárritu. Era ahimé il 2014, poi c’è stato quasi solo il bis di “Beetlejuice Beetlejuice”, nel 2024 accanto a Monica Bellucci (“Spiritello porcello”, sentì il bisogno di aggiungere il titolatore italiano, nel 1988). Oltre alla miniserie tv “Dopesick – Dichiarazione di dipendenza” sull’abuso di oppioidi, in particolare l’Oxycontin, prescritto ai minatori con la schiena rovinata e poi a chiunque. La figlia d’arte nasce già versata nella commedia, e racconta nel “Padre dell’anno” una madre che va in rehab. Lasciando i due gemelli alle cura del padre Michael Keaton. Principiante assoluto, cerca di arrangiarsi – e i due rampolli sono anche simpatici. Si fa viva la prima figlia, avuta da un’altra moglie. E’ ormai adulta, e molto incinta. Cerca comunque di dare una mano, e puntuale arriva la scena di gelosia: “Di me non ti sei mai occupato”.
LA VOCE DI HIND RAJAB
di Kaouther Ben Hania, con Sara Kilani, Motaz Malhees, Clara Khoury
Riportiamo
una sintesi dall’articolo “indecente, scritto da una stronza senza cuore, che dovrebbe essere espulsa dall’ordine dei giornalisti” (se solo ne facesse parte). “Buono soltanto per foderare il secchio dell’umido” (secondo un castigatore ignoto che aggiunge lo smile vomitante). Meritevole del premio “Cinismo nel giornalismo” (secondo Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty). “The Voice of Hind Rajab” è stato accolto alla Mostra di Venezia con un applauso di 23 minuti. Da film modesto che era, pure manipolatorio per non dire ricattatorio, è diventato intoccabile. Un santino che si può solo adorare, come se il 7 ottobre non fosse mai accaduto. La regista aveva con sé la foto formato manifesto di Hind Rajab – la bambina palestinese morta perché i soccorsi non sono arrivati in tempo. Il responsabile della Mezzaluna Rossa chiedeva un percorso sicuro per l’ambulanza, già aveva perso troppi medici e infermieri. Dire che la bambina, se fosse sopravvissuta e cresciuta, avrebbe dovuto coprire capelli e abito – come l’operatrice che al telefono con lei cerca di farle coraggio – è stato considerato colpa grave. Anzi gravissima. Uno parla di articolo “disumano, volgare, feroce, crudele”, e neanche si degna di nominarmi (sono ancora convinti che internet custodisca senza diffondere). Alessandro Robecchi avanza l’ipotesi che il mio articolo vada “al di là dell’umano, sfregio per una bambina innocente assassinata dalle SS dell’Idf”.