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NUOVO CINEMA MANCUSO
A duello col ragno
“Tre millimetri al giorno” è il titolo del romanzo di Richard Matheson – geniale scrittore e sceneggiatore americano a cui dobbiamo la migliore fantascienza anni Sessanta. Del secolo scorso, precisiamo. Tutte le possibilità erano aperte: non c’era bisogno di arzigogolare le storie, né di tirare in ballo universi paralleli, per produrre fantascienza più che dignitosa. E’ durata, e ancora batte le sedicenti “narrazioni sul multiverso”, pure le storie che indagano l’interiorità dei personaggi.
Ne riparleremo. Intanto guardate la nuovissima “Plur1bus” di Vince Gilligan, e dite se non è un centone di storie e temi assai sfruttati. Aspettiamo la fine dei nove episodi su “Apple tv+”, il terzo è uscito ieri. La serie è di grande attualità e figaggine, ma la diffondono come le serie classiche: un episodio a settimana, gran finale il 26 dicembre.
Nell’attesa, celebriamo il cinema francese. La società di effetti speciali Mac-Guff che sta lavorando al remake di “Tre millimetri al giorno”. Diretto da Jan Kounen con Jean Dujardin nei panni – sempre più precari, sarà costretto a cucirseli da soli come le bambine fanno con le bambole – di un uomo altro un metro e ottanta che nel giro di un’ora e mezza misurerà meno di un centimetro. Nel vecchio film diretto da Jack Arnold (“The Incredible Shrinking Man”, per varie traversie diventato in italiano “Radiazioni BX: distruzione uomo”, 1957) tutto era fatto a mano. Man mano che il nostro uomo rimpicciolisce, gli oggetti accanto a lui diventano grandi e sinistri. Dorme alla casa delle bambole e deve vedersela con il gattone di casa. Nella cassetta del cucito trovava un enorme ditale e un ago da usare come arma. Nel frattempo arriva il ragno, enorme pure lui.
E’ questa la scena che Première di novembre (il film è uscito in Francia il 22 ottobre scorso) racconta ai lettori, corredata di fotografie che illustrano i vari strati necessari per la scena del ragno. Ci sono le riprese dell’attore su fondo blu, primo passo su cui poi si interviene. Davanti a Dujardin, un tecnico vestito di blu con le stampelle per simulare l’attacco del ragno. Verrà cancellato, serve soltanto per “dare la replica all’attore”, che se no sarebbe solo, e dovrebbe immaginarsi l’ingombro e i movimenti del mostriciattolo.
Sappiamo come si muoverà la macchina da presa. Ma bisogna ricordare che Jean Dujardin a questo punto del film è alto meno di un centimetro, quindi lo sfondo va ricalibrato (per questo l’hanno fatto con grandi pezzi di lego). Bisogna aggiungere la polvere, e tutto quel che fa spelonca. Sistemati gli ammennicoli, bisogna collocare l’attore. Ma perché non hanno fatto tutto in 3D? Chi ha visto film in 3D lo sa: per via della grana e della profondità di campo, perché così il tecnico delle luci può illuminare la scena senza che sembri finta.
THE RUNNING MAN
di Edgar Wright, con Glen Powell. Josh Brolin, Emilia Jones, Colman Domingo
Il
romanzo di Stephen King – firmato Richard Bachman: uscì quando lo scrittore del Maine produceva più di quanto l’editoria potesse assorbire, così si spiega lo pseudonimo – non invecchia. Invecchiano le versioni cinematografiche (succede anche alle traduzioni, il passaggio da un mezzo all’altro si porta dietro sempre “qualcosa di moda”, che subito diventa “un che di stantìo”). Nel 1987 il Running Man era Arnold Schwarzenegger, eroe di tanti inseguimenti e battaglie. Ora è Glen Powell, meno muscoloso attore che abbiamo visto nel bellissimo “Hit Man – Killer per caso” di Richard Linklater. Un prof. di matematica dalla faccia facciosa (si dice nei Peanuts). Cambia pettinature e abiti, si rende irriconoscibile, e collabora con la polizia per smascherare i mandanti. Qui è invece un poveraccio senza lavoro né soldi, con la bambina malata e la moglie vive in una topaia. Siamo negli Stati Uniti in un futuro non troppo lontano. Rischia il tutto e per tutto in un gioco tv dove i concorrenti fuggitivi hanno 24 ore di vantaggio sui cacciatori, e contro l’America intera. Il pubblico da casa può catturarli, o almeno denunciarli: all’inizio vengono presentati come criminali, nemici dello stato e della gente perbene. Un presentatore in acido (o altre sostanze che devastano il cervello) scatena gli spettatori. Il concorrente deve resistere 30 giorni. Lo spettatore, due ore e un quarto. Schwarzenegger si era sbrigato in un’ora e 41.
IL MAESTRO
di Andrea Di Stefan con Pierfrancesco Favino, Tiziano Menichelli, Edwige Fenech
In
una tavola disegnata da Giuseppe Novello, grande interprete della perfidia e delle scontentezze provinciali, vediamo un giovanotto che alla luce di una lampada a petrolio sta chino sulle scartoffie. Didascalia: “Il fanciullo, avviato dal padre professore agli studi classici, si alza di notte per dedicarsi ai prediletti studi di ragioneria”. In perfetta sintesi, una delle fonti principali di infelicità familiare, e di rancori tra padri e figli. Nel “Maestro” un padre che vive dietro la scrivania vuole far del figlio un campione di tennis (passa l’estate a fare tre lavori). L’altra relazione padre-figlio è tra il ragazzino e il suo maestro di tennis. Tale Raul Gatti, offre a Pierfrancesco Favino l’occasione per essere un po’ meno Favino: no mafia, no criminalità, solo un ex campione di tennis (mai diventato tale, ma lui si vive così) che ora insegna servizio, diritto e rovescio. I luoghi sono sempre gli stessi, campi da tennis nella pineta. I piccoli campioni forse sono più aggressivi. Non è il caso del tredicenne Felice, è il genitore che ha voglia di rivincita – guardate per favore il giubbetto azzurro sulla camicia a scacchi, gli occhiali e i pochi capelli che gli restano. Andrea Di Stefano aveva diretto “L’ultima notte di Amore”, introdotto da una gran volo panoramico notturno su Milano: il poliziotto integerrimo festeggia 30 anni di immacolato servizio, e proprio quella notte ha l’occasione per rubare in grande.
I COLORI DEL TEMPO
di Cédric Klapisch, con Suzanne Lindon, Vincent Macaigne, Cécile De France, Paul Kircher
La
casa è vecchia e disabitata, il tipo che a certe persone mette ansia – altri la ammirano come un luogo di meraviglie. Dipende dalla parentela, più è lontana più mette voglia di frugare nei cassetti senza malinconie. Il gruppo dei discendenti curiosa qua e là, senza sapere bene cosa farne. Gli attuali vicini vorrebbero vederla in vendita al più presto: c’è già il progetto di un centro commerciale. Un content creator – ma guarda, chi l’avrebbe mai detto! – fa da medium verso il passato. Verso la Belle Époque, quando si inaugura a Parigi la prima mostra degli impressionisti (non l’unico movimento artistico battezzato con un insulto rivolto ai primi che lo praticavano). Negli stessi anni, la tecnica fotografica insidiava l’arte della pittura, con i soliti dibattiti tra favorevoli e contrari, passatisti e amanti delle novità. La giovane protagonista Adèle incontra Victor Hugo e Monet – complice qualche sostanza per rendere agevoli i viaggi nel tempo. L’attrice di cognome fa Lindon, figlia di Vincent Lindon: molto premiato perché si fa tartassare dalle registe femministe come Julia Ducournau, vincitrice di Palma d’oro a Cannes. Ha una faccia carina, adatta ai nuovi film di Klapisch dopo che “L’appartamento spagnolo” e derivati sono arrivati fino a New York. Cambiano i secoli, è sempre feel good movie alla francese. Che vuol dire: molto meglio sceneggiato e diretto dei corrispettivi italiani.
UNA RAGAZZA BRILLANTE
di Agathe Riedinger, con Malou Khebizi, Idir Azougli, Léa Gorla, Andréa Bescond
Insegnanti
di cinema, studenti di cinema, critici alle prime armi e critici più stagionati (mica è male: vuol dire aver visto più film degli altri), e poi commissari, esperti, distributori di fondi e di medaglie. Accorrete, e guardate questo film. Opera prima – da un suo precedente cortometraggio – di Agathe Riedinger. Il “diamante grezzo” – questo doveva essere il titolo originale, già rubato dal bel film con Adam Sandler venditore di pietre preziose a New York – è Liana: 19 anni, una famiglia inesistente e una gran voglia di farsi notare. Per la bellezza, certo. Si è già rifatta il seno e probabilmente non ha mai letto un libro. Tanto diversa dalle ragazze nei film di Nanni Moretti, tranquille anche quando hanno deciso di divorziare – o forse se ne vanno dal film perché certe gonne che il regista fa indossare a Margherita Buy in “Tre piani” sono un insulto guardarobiero, roba che neanche una suora laica porterebbe. Ma torniamo alla nostra ragazza brillante. Tette nuove e niente lavoro – ogni tanto rubacchia nei negozi, e rivende creme e profumi dicendo che lo fa per aiutare la nonna malata. Sogna di vincere il reality “Miracle Island”, ha fatto il provino ma ancora nessuno si è fatto sentire. Va in giro con l’unico amico ritrovato: erano insieme in una casa famiglia di Tolosa (qui siamo a Fréjus, mezz’ora di treno da Cannes). Liane cerca gli sguardi, ma è svelta a fuggire quando le situazioni si fanno rischiose.





