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NUOVO CINEMA MANCUSO
Film contro la tirannia
Intorno gli è girato tutto il festival di Cannes. Ma il film di Sergei Loznitsa “Due procuratori” è rimasto in cima alla classifica delle stelle (vanno da una a quattro, si è aggiudicato un 3.1). A pari merito, “It was just an accident” di Jafar Panahi, primo film del regista iraniano dopo la condanna al silenzio cinematografico – che era riuscito ad aggirare, per esempio girando un film in casa sua, con le tende tirate. A Cannes non veniva dal 2018, gli avevano ritirato il passaporto. Nel 2022 era stato arrestato, e liberato nel 2023, dopo uno sciopero della fame e della sete.
Due film contro la tirannia. Staliniana nel caso di Loznitsa, ucraino che ora vive a Berlino: la denuncia di un’ingiustizia faceva di chiunque un nemico del popolo da incarcerare subito. Per Panahi, il nemico è l’Iran islamico: “E’ stato solo un incidente” lo ha girato senza autorizzazione, il copione nelle mani dell’autorità ritorna maciullato. L’esperienza gli ha insegnato a prendere le questioni di sponda. Nel film, un uomo crede di riconoscere dal passo strascicato il suo torturatore. Non di un giorno, di un paio d’anni. Soluzione: rapire il sospetto, chiuderlo in un furgoncino, portarlo a incontrare altre sue vittime “vedenti” – lui era bendato – sperando che qualcuno riesca a identificarlo.
In fondo alla classifica, “Eddington” di Ari Aster, regista dell’orrore più o meno intellettuale. Sono i tentativi che fa il Festival di Cannes per stare al passo con i tempi. Quasi mai riescono: un Quentin Tarantino con un film strepitoso come “Pulp Fiction” mica lo si trova facilmente – e il regista aveva 30 anni quando vinse la Palma d’oro.
Quest’anno Madame la présidente è Juliette Binoche, la provincia americana che spara e uccide non sembra il suo genere prediletto. Sempre tra i meno applauditi – insistiamo perché sui giornali italiani sta scritto che il film di Mario Martone “è stato accolto benissimo” – troviamo “Fuori”. Valeria Golino è brava, Matilda de Angelis pure, ma il film risulta ostico perfino ai francesi che Goliarda Sapienza l’hanno scoperta (postuma) e rilanciata.
I fratelli Dardenne, da “Rosetta” in poi, non hanno certo bisogno della terza Palma d’oro: “Jeunes mères” era un film da mettere fuori concorso. Ma c’erano già tanti titoli, e poi c’erano le anteprime, e poi c’erano i restauri, e poi gli anniversari: il festival soffre di bulimia, nulla deve restare fuori. Neanche il film mediocre scelto per l’apertura, “Partir un jour”. Diretto dalla quarantenne più nostalgica trovata sul mercato, Amélie Bonnin. Femminista, artista d’avanguardia, affezionata alla douce france campagnola. Alle sue canzoni. Alla vita in famiglia. Perfino alla macedonia che aveva tanto disprezzato per vincere una specie di masterchef.
MISSION: IMPOSSIBLE – THE FINAL RECKONING
di Christopher McQuarrie, con Tom Cruise, Simon Pegg
L’importante
è durare. Cominci nel 1996 come eroe di un film ispirato a una serie tv con lo stesso titolo – un film diretto da Brian De Palma, mica l’ultimo arrivato. E il secondo lo aveva diretto John Woo. Dopo otto film nei panni dell’agente Ethan Hunt, agente della sezione ultrasegreta (o così dovrebbe essere) che nella CIA si occupa di operazioni ad altissimo rischio, sei invitato al Festival di Cannes con tutti gli onori. Il ridotto dei cinefili ormai non è più tanto un ridotto, difeso da muri altissimi, e Tom Cruise è entrato nella storia del festival. Con le sue acrobazie, tutte studiate ed eseguite di persona personalmente. In aria, appeso agli aeroplani, e ora sotto il livello del mare. Deve avere polmoni d’acciaio, per inabissarsi a 62 anni con il solo aiuto di un costumino nero. E restare sott’acqua un bel po’. Tra un film e l’altro passa mesi ad allenarsi. Questo è l’ultimo, la resa dei conti finale. Contro un nemico misterioso chiamato l’Entità, mostro maligno creato dall’intelligenza artificiale. O dai cattivi. O da noi stessi. O dai servizi segreti deviati. Nel film tentano la spiegazione, ma siccome questo è il seguito di un film della saga intitolato “Final Reckoning”, la logica vacilla. Noi guardiamo le acrobazie. Viene il mente la vecchia battuta sullo scienziato geniale che costruisce un computer capace di rispondere a tutte le domande. Un gruppo di saggi studia un domandone, e chiede “Dio esiste?”
FUORI
di Mario Martone, con Valeria Golino, Matilda de Angelis, Elodie, Corrado Fortuna
Abbiamo
letto “L’arte della gioia” con ritardo, la celebrazione con santino femminista di cui Goliarda Sapienza è stata vittima era davvero poco invitante. L’avevano riscoperta i francesi, una decina di anni fa. Per i salotti letterari romani era troppo pestifera, umorale, eccentrica – nel senso migliore della parola. Dispettosa, anche. Con chi l’aveva esclusa dal giro dopo la fine della ventennale relazione con Francesco Maselli. Rubò gioielli dal cassetto di un’amica, e nel 1980 passò cinque giorni a Rebibbia. Mario Martone rinuncia all’opera, da poco diventata una gran bella serie tv diretta da Valeria Golino – un piccolo Gattopardo, con al centro Modesta, nata miserabile e decisa a conquistarsi la sua parte di felicità. E di potere, nei primi 50 anni del Novecento. E sceglie (giocoforza, ma poteva scegliere qualcun altro) la vita, soprattutto l’esperienza del carcere. Che a Goliarda Sapienza, già in cura psicoanalitica (e poi psichiatrica), sembrò un posto accogliente e protetto, dove farsi delle amiche. A riprova del fatto che l’opera è sempre più interessante della vita, il film di Mario Martone – “Fuori” dovrebbe essere la felicità, per Goliarda Sapienza fu un altro abbandono – non spreca nessuno dei 115 minuti per suggerire che dietro c’è un bel po’ di letteratura. Le tre ex carcerate camminano per Roma, Matilda De Angelis ruba macchine, Elodie mette su una profumeria all’Acqua Bullicante. Un tocco pasoliniano sempre serve.
L’INFINITO
di Umberto Contarello, con Umberto Contarello, Carolina Sala, Manuela Mandracchia
Cosa
fa uno sceneggiatore depresso? Bipolare, per la verità: negli intervalli buoni, e forse anche nei meno buoni, Umberto Contarello ha scritto tanti film. Negli ultimi tempi per Paolo Sorrentino, che ora durante una telefonata sull’andamento umorale, insistite e ripetute, gli dice “ora basta, scrivi un film su di te, e farai anche l’attore”. Viene in aiuto Ottiero Ottieri, grandissimo poeta e cantore della depressione – tra le pillole e chi ti dice “tirati su, datti una mossa, che ti manca?”. Ma intanto fa scrivere versi sublimi come questi: “Si disputa se sia cronico o ciclico: / prima affogava poi nuotava / ora fa sempre il morto”. La conversazione, apprendiamo da questo film, era un rito mattutino. Lo strizzacervelli Paolo Sorrentino sottopone il paziente a uno choc letterario. A giudicare da questo film, la cura ha funzionato, adatta al narcisismo del paziente. Che si mostra in mutande, appesantito, abbattuto, solo, ma in continua esibizione di se stesso. Non siamo fan di Umberto Contarello, neppure dei film scritti per consolazione e medicina. Ma qui la tenerezza e cinica autoironia fanno il miracolo. In un bel bianco e nero, il nostro va a trovare le ex morose, la figlia che da tempo non vede, conversa con il domestico (un meraviglioso e saggio Jeeves), aiuta una giovane sceneggiatrice a trovare i “turning point”, le svolte di sceneggiatura. O a decidere che si possono evitare – consiglio rovinoso, mica tutti hanno lo stile che serve.
Risposta: “Adesso sì”.
BIRD
di Andrea Arnold, con Barry Keoghan, Nykiya Adams, Franz Rogowski, Jason Buda
Famiglia
britannica in una casa occupata nel nord del Kent. Ma potrebbe essere in altri posti della terra. La ragazzina Bailey ha 12 anni, assai più responsabile di suo padre, del resto poco più grande di lei: l’attore Barry Keoghan, che poi vedremo in “Saltburn” (di passaggio, una delle già belle e compiute sceneggiature viste negli ultimi tempi, la classica storia servo-padrone adattata ai tempi nostri e al college, scritta e diretta da Emerald Fennell). Gira, cammina, va a curiosare, come se cercasse un posto giusto per lei. Andrea Arnold gira spesso con la macchina a mano, il senso di instabilità aumenta nelle strade a est di Londra: viali stretti e campi dove pascolano i cavalli. Bailey scappa, anche dal padre. Quando torna a casa, trova il genitore-ragazzino deciso a sposarsi, e a mantenersi con un rospo bavoso (dicono che sia un toccasana per certe malattie). Bailey continua nei suoi vagabondaggi, e incontra uno strano personaggio, che forse non esiste, o si mostra solo a lei. Passa il suo tempo sui tetti, è abbastanza bizzarro, ma non è peggio di ciò che la ragazzina ha intorno. In vista del matrimonio Bailey si taglia i capelli, facendo arrabbiare i padre (che è tutto tatuato, ma ha un’idea di perfezione sua). Ha sempre il cellulare in mano, fotografa gli uccelli e li usa come messaggeri. La svolta fantastica è inedita per Arnold, che aveva dedicato il suo ultimo film a una magnifica mucca: “Cow”. Senza barare, annunciava quel che ci sarebbe toccato.