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Un costume da scimmia a vita
Non è “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” – azzeccato titolo per uno strepitoso romanzo di Roy Lewis che racconta l’evoluzione dei cavernicoli: scoprono il fuoco, l’arco, i cibi cotti e soprattutto la regola numero uno. Vale a dire, il divieto di accoppiarsi con le proprie sorelle: Claude Lévi-Strauss, in un angolino, applaude. E’ il più famoso uomo scimmia di Hollywood, raccontato dal mensile Empire nell’ultimo numero.
Rullo di tamburi. Il gorilla entra in scena. Tolti i guantoni e il capoccione peloso da gorilla, si avvicina a Cary Grant. E mostra i capelli biondi di Marlene Dietrich. Il film è “Blonde Venus”, diretto nel 1932 da Josef von Sternberg. Dentro il costume da gorilla, per la maggior parte del tempo, c’era però Charles Gemora. Il più famoso a vestire la livrea. Erano altri tempi, nel film “The Square” di Ruben Östlund a fare il gorilla – spaventando un’elegante cena con i suoi versi minacciosi – era Terry Notary. Neanche aveva bisogno del costume, bastava il possente torace.
Gemora si era imbarcato su un cargo a quindici anni. Dalle Filippine a Hollywood. Non immaginava che avrebbe recitato la parte del gorilla quasi tutta la vita. Decenni di carriera, che fecero di lui il re degli uomini-gorilla. Si cuciva i costumi da solo, per cercare il massimo realismo. Disegnava i set, perfezionò il trucco – una foto su Empire lo mostra con le orbite cerchiate di nero, per non staccare troppo; la testa da gorilla, con le sue manone, appoggiate sul tavolino da trucco – e aiutò a fabbricare un sangue finto che non lasciava macchie.
Dagli anni 20 ai 60 del Novecento, abitò in un costume da scimmia. Era nato nel 1903, ultimo di nove figli, scappò dalle liti in famiglia rifugiandosi in un monastero. Studiò da autodidatta, prima di imbarcarsi per San Francisco. Nei dodici giorni di navigazione si comportò da eroe, sbloccando una valvola accessibile solo a chi come lui era alto meno di un metro e 60.
A Los Angeles cambiò nome in Charlie, e passava le giornate davanti agli studi della Universal, aspettando la “cattle call” – “chiamata per il bestiame”, vale a dire le comparse. Fu invitato a entrare, e si guadagnò un minuscolo ruolo nel film “Il gobbo di Notre Dame”. Aveva appena 20 anni, il gobbo era lo strepitoso Lon Chaney – di cui si diceva: “Non schiacciare mai uno scarafaggio, potrebbe essere Lon Chaney in uno dei suoi migliori travestimenti”. Era tra la folla davanti alla cattedrale, nei momenti di pausa disegnava i gargoyle. Lon Chaney fece di lui uno scultore: “Se sai disegnare sai anche lavorare con l’argilla”. Anche il “monkey business” iniziò con un disegno. Per “The Lost World”, regia di Harry Hoyt dal romanzo di Arthur Conan Doyle.
NEVERGREEN
di Stefano Pistolini, con Francesco De Gregori, Malika Ayane, Jovanotti, Elisa (al cinema fino al 17 settembre)
Con
i telefoni fate quel che vi pare.
Non me ne frega niente”. Il liberi tutti – ma chi avrebbe osato – era per
200 spettatori ogni sera. All’Out-Off di Milano, tra ottobre e novembre 2024. Titolo del recital: “Nevergreen”: i brani mai diventati celebri, se non addirittura “perfetti sconosciuti”, spiega Francesco De Gregori. Forse meritavano di meglio. Come quelli nell’album “Rimmel”, che compie 50 anni e viene festeggiato con un’edizione speciale e con un Rimmel Tour, fino ai primi mesi del 2026. La regia di Stefano Pistolini lascia tutto lo spazio alla musica, e agli ospiti arrivati per un duetto. Si comincia con “Sento il fischio del vapore del mio amore che l’va via”. Brano popolare che racconta la partenza per l’Albania, nel 1914. Francesco De Gregori è in scena da solo con i suoi musicisti e una corista. “Quattro cani” (per strada) e arriva al teatrino Malika Ayane, per ribadire che “l’amore è mascalzone”. Con l’occhio di chi nella vita ha visto troppi film – però delle canzoni di Francesco De Gregori ricorda anche le “nevergreen” – osserviamo i dettagli. I berretti e cappelli che l’artista cambia a ogni spettacolo, e le due fedi matrimoniali al dito (uno ricorda la consorte scomparsa). Arriva Jovanotti, anche lui con cappello, porta i jeans con risvolto come Jack Kerouac. Francesco De Gregori indossa la giacca blu damascata. Si chiude con “Buonanotte Fiorellino”. Il pubblico, per grazia ricevuta, accenna passi di valzer.
MOUNTAINHEAD
di Jesse Armstrong, con Steve Carell, Jason Schwartzman, Cory Michael Smith, Ramy Youssef (su Sky e Now)
La
villa è meravigliosa, tra nevi e pineta. I quattro maschi riuniti sono quelli che hanno cambiato il mondo. Vorrebbero cambiarlo ancora un po’, non importa se il mondo ancora non sa usare “quel che gli diamo in mano”. Se non nella maniera peggiore. Le notizie che arrivano in tv raccontano rivolte quasi ovunque nel mondo, e un sindaco di Parigi assassinato (risatine). I quattro si scrivono sul petto con il pennarello il saldo delle loro fortune. Miliardi, solo il proprietario della lussuosa casa di duemila metri quadrati, con bunker sotterraneo dotato di pista da bowling – l’attore è Jason Schwartzman – possiede appena 500 milioni di dollari. L’ultimo arrivato, l’attore Ramy Youssef, ha fatto i soldi con un un “moderatore” dotato di intelligenza artificiale: dovrebbe impedire di andare a sbattere, infatti si chiama “guardrail”. Si capisce che Jesse Armstrong, dopo la fine della serie “Succession”, non ha molta fiducia nelle nuovissime tecnologie. I giovanotti che le creano sono riuniti nella villa battezzata “Mountainhead” – “Fountainhead” era invece il titolo di un romanzo di Ayn Rand. Dovrebbero giocare a poker, e invece hanno in mano le sorti del mondo. “Siamo i protagonisti di una grande svolta, come nella Mesopotamia di 5000 anni fa”. Guardatelo in versione originale con sottotitoli, il doppiaggio lascia molto a desiderare. L’inglese ha parole brevi con ritmi sincopati, e si parlano un po’ addosso.
LA RIUNIONE DI CONDOMINIO
di Santiago Requejo, con Raúl Fernández de Pablo, Clara Lago, Fernando Valverde
Stava
scritto su un bancone di libri alla Feltrinelli di Milano – quella nel magnifico palazzo disegnato dagli architetti Herzog & de Meuron. I commessi davano per scontato che la riunione di condominio può somigliare a una guerra senza esclusione di colpi, consigliavano titoli intonati. Quindi, eccone qua una, ambientata a Madrid. Non è la prima che vediamo al cinema, c’era stato il film di Álex de la Iglesia “La comunidad – Intrigo all’ultimo piano”: condominio con appartamenti fatiscenti, un sacco di soldi nascosti e una pianta per trovarli. E c’era stato il film tratto dal racconto di James Ballard – “High-Rise – La rivolta” diretto da Ben Wheatley con Tom Hiddleston. Britannico nato a Shanghai, anche lui gran raccontatore di caseggiati che pian piano tornano all’età della pietra. Qui la situazione non è così grave. All’inizio, almeno. La corrente elettrica spesso salta e l’ascensore è vecchio. Bisognerebbe sostituirlo. Discussione prima del voto, già escono un po’ di rancori. In scena: la signora sola, il giovanotto a cui il padre ha regalato l’appartamento, la madre preoccupata della figlia adolescente. Gli inquilini anziani che sempre borbottano, uno mantenendo un certo contegno l’altro molto meno. Si vota anche sul futuro inquilino. Ha un problema di salute mentale, che però non gli impedisce di lavorare nell’informatica. E’ sincero sulle proprie condizioni, ma i coinquilini preferiscono pagare perché la casa rimanga vuota.
DOWNTON ABBEY – IL GRAN FINALE
di Simon Curtis, con Michelle Dockery, Laura Carmichael, Raquel Cassidy
La
fine di un’èra. Si poteva dir lo stesso del 1912, quando era ambientata la prima stagione della serie “Downton Abbey” scritta da Julian Fellowes (che poi ci ha riprovato con la New York degli anni 80 dell’800, titolo “The Gilded Age”: l’età dorata, disse Mark Twain). Ora siamo nel 1930, e appunto un’altra èra sta per finire – ognuno tende a considerarla corrispondente ai propri anni migliori. Nel 1912 il naufragio del Titanic aveva tolto di mezzo un paio di eredi legittimi e diretti, cosicché la proprietà – Downton Abbey appunto – era passata al ramo americano della famiglia. La Contessa Madre Maggie Smith aveva pronunciato la battuta rimasta celebre – “What is a weekend?” – e il nuovo conte di Grantham rifiutava, grande scandalo, di farsi vestire dal valletto. Mary, la figlia scapestrata, ora ha divorziato dal marito. Quando entra nei salotti gli altri ospiti ammutoliscono. Però tocca a lei occuparsi della proprietà, e delle poco solide finanze della famiglia. Il fratello americano di Cora Crawley – l’attore Paul Giamatti – ha perso un sacco di soldi in speculazioni sbagliate. Si presenta con un seducente ma pericoloso giovanotto, l’attore americano di origini italiane Alessandro Nivola. Arriva anche Noël Coward, commediografo che poi scriverà “Vite private” (nel film “Gosford Park”, scritto da Julian Fellowes e diretto da Robert Altman, l’ospite illustre era Ivor Novello). Cambia anche la servitù. Divertente, al netto dei troppi indugi.