Una settimana esatta dopo il venticinquesimo anniversario della fondazione di Google, è ufficialmente iniziato il processo per pratiche anti competitive nei confronti della casa madre Alphabet.
L’azione è stata intentata dal ministero di giustizia americano in associazione con procuratori generali di 38 stati, che accusano Google di aver colluso, tramite lauti pagamenti (un totale di oltre 10 miliardi di dollari l’anno) con produttori di telefoni – come Apple e Samsung – e browser (compresi Safari e Firefox) per installare il proprio algoritmo come motore di ricerca predefinito, precludendo in tal modo da 12 anni ogni legittima competizione da parte di terzi. L’azienda di Mountain View controlla attualmente il 91% delle ricerche internet e ha una capitalizzazione complessiva di 1.700 miliardi di dollari.

IL PREDOMINIO schiacciante del mercato permette a sua volta all’azienda di mantenere un vantaggio sui concorrenti nell’efficienza delle ricerche. (Una seconda azione legale del dipartimenro di Giustizia insieme a 8 stati accusa Google di detenere un simile monopolio sulle «tecnologie pubblicitarie»).
Gli avvocati di Google rifiutano l’accusa e sostengono che esistono molteplici alternative disponibili agli utenti, quali i suggerimenti di Amazon e Yelp e motori di ricerca come Bing di Microsoft. Sostengono inoltre che l’azione del governo costringerà gli utenti ad utilizzare «prodotti inferiori».

IL PROCEDIMENTO ricalca quello a carico della Microsoft nel 1998, quando era l’azienda di Bill Gates a dominare i sistemi operativi ed imporre la preimpostazione del browser Explorer con l’istallazione di Windows nei pc. L’azienda di Seattle venne condannata con una sentenza poi rovesciata in appello ma l’effetto fu la progressiva perdita di share nel mercato dei browser.
L’attuale processo, in cui sono previste le testimonianze di numerosi manager di grandi aziende informatiche, compreso Sundar Pichai, succeduto quattro anni fa a Larry Page come amministratore di Alhpabet, misurerà anche la volontà dell’amministrazione Biden di intervenire sugli oligopoli di Silicon Valley, motore del capitalismo delle piattaforme e componenti cruciali dell’egemonia americana su internet. Lo scorso luglio il dipartimento antitrust del ministero di Giustizia e l’authority sul commercio – Federal Trade Commission (FTC) – avevano annunciato un programma congiunto per sorvegliare più severamente su fusioni ed acquisizioni, soprattutto nel settore digitale. L’antitrust del ministero è guidato da Jonathan Kanter che guiderà anche l’accusa nel processo Google. A capo dell’Ftc Biden ha nominato Lina Khan, celebre per un suo trattato sul monopolio Amazon. Il suo ufficio si è di recente espresso contro la fusione fra Microsoft e il gigante dei videogiochi Activision Blizzard e quella fra due colossi dei microprocessori, Nvidia e Arm.

IL GIRO DI VITE deve ancora dare risultati concreti (le due fusioni non sono per ora state bloccate dai tribunali), ed una vittoria nel caso Google sarebbe la prima vera indicazione di una modifica delle politiche commerciali Usa, ad oggi assai più permissive, ad esempio, di quelle della Ue.
Le origini di Google formano parte della mitologia di Silicon Valley. L’azienda venne fondata da Larry Page e Sergey Brin, quando, freschi di laurea a Stanford, ricevettero 100.000 dollari di finanziamento da Andy Bechtolsheim, un fondatore di Sun Microsystems, per attrezzarsi nel garage in cui misero a punto l’algoritmo di ricerca denominato PageRank, più efficiente di ogni altro nel selezionare risultati rilevanti in base a termini di ricerca.

Nelle prime fasi l’azienda rispecchia l’idealismo dei fondatori e rifiuta addirittura la pubblicità, ma poi finiscono ben presto per prevalere le leggi del mercato e degli affari. L’attuale mastodontico fatturato è incentrato proprio sugli introiti pubblicitari. E gli interessi economici finiscono inevitabilmente per influenzare la maniera in cui l’algoritmo ordina i risultati di ricerca. Oggi la visibilità su Google ed i sistemi per ottimizzarla sono parte integrante di ogni operazione commerciale. Da qui la deriva del motore, motivato a promuovere servizi e accessi a consociate o clienti, secondo la tesi del governo, anche con incentivi illeciti utilizzati dall’azienda per mantenere un predominio sconfinato in monopolio.

PER GOOGLE la causa giunge in un momento poco opportuno. Il business e la tecnologia della ricerca di contenuti sono oggi sul punto di un balzo in avanti – o quantomeno verso l’ignoto. L’emergere dei sistemi “generativi” dell’intelligenza artificiale come tecnologia per organizzare la vastità dell’infosfera, rappresenta una sfida esistenziale per il modello Google. I sistemi che assorbono automaticamente la somma delle informazioni online per formulare risposte in formato domanda/risposta minacciano di sostituirsi all’indicizzazione di siti online, e promettono di rivoluzionare fruizione (e monetizzazione) di internet, sia per le aziende che per gli utenti, in modi ancora tutti da definire.
Il processo potrebbe durare fino all’inizio del prossimo anno.