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Compie diciott’anni ma è nato già vecchio. Il sogno fugace del “Democratic Party” che guardava a Obama e la realtà di un “amalgama non riuscito”. In ritardo di trent’anni, sempre immobile e mai davvero desiderabile
di Andrea Minuz
Nella memoria si accumulano immagini, volti, manifesti, tormentoni del Pd: “La casa comune”, “l’Italia migliore”, “la vocazione maggioritaria”, “la base”, “la gente”, “l’area”. Un flusso torrenziale di correnti, correntoni, congressi, scissioni, carte, piattaforme, primarie. Un talent continuo per scovare il segretario del partito, coi candidati nell’“X-Factor Arena”, i “confronti all’americana” su Sky Tg24: quanti ricordi che “sbloccano” questi primi diciott’anni di Pd! (14 ottobre 2007, data importante, passata un po’ inosservata). “Lo scopo della nostra generazione era portare la sinistra al governo” diceva tanto tempo fa un formidabile Guzzanti- Veltroni giocherellando con le figurine Panini, “sennò portate voi la sinistra e noi portiamo le pizzette, il vino…”. Eccoci qui, più o meno al punto di partenza. Dopo tante analisi del Pd uscite anche in questi giorni – cos’è, cos’è stato, cosa sarà – vorremmo qui tentare una sua piccola storia sentimentale. Qualche anno dopo quello sketch di Guzzanti, Veltroni diventava primo segretario e showrunner del partito – lo Shonda Rhimes del Pd. Qui iniziano i miei primi ricordi: una serie di manifesti enigmatici comparsi a Roma e, presumo, in altre città d’Italia, verso la fine di quel fatidico 2007, che annunciavano l’arrivo della nuova creatura politica: un bibitone arancione tipo Aperol Spritz, assai poco invitante, con fetta di limone, ramoscello di ulivo (o rosmarino come nel gin tonic?) e la scritta Democratic Party. Si apriva l’èra dell’obamismo italiano. Tutto un We can, I care, I want, o come nella sfolgorante sintesi di Berselli: “I care. We can. They win”. E così fu. Lo sciroppone si rivelò infatti subito imbevibile. “L’amalgama non è riuscito”, disse D’Alema. Veltroni entrò in un tremendo spleen: “Voglio più bene al Pd che a me stesso”. L’anno dopo si dimetteva. Addio Obama!
Passammo dai romanzi di Veltroni a quelli di Dario Franceschini poi agli haiku contadini di Bersani.
Come inno scelse un pezzo di Vasco che, in effetti, pareva scritto apposta per il Pd: “Voglio trovare un senso a questa storia / anche se questa storia un senso non ce l’ha”. Ora, ripensandoci, era chiaro che quel beverone arancione, il richiamo alla festa, il Democratic Party, il “Loft” al posto della vecchia sede di partito, insomma tutte queste cose qui non avevano a che fare con Obama. Erano semmai una molto tardiva scoperta degli anni Ottanta anche a sinistra. Ecco l’effetto straniante del Pd: vecchio specie quando tentava di essere nuovo. Ecco l’ironia e la simpatia posticce, grossier, cringe come si dice oggi. Non era solo l’inseguimento di Berlusconi su un terreno in cui era oggettivamente imprendibile, ma il tentativo davvero patetico di mostrarsi all’improvviso in sintonia con tutto ciò che a sinistra si era sempre schifato: la tv, la pubblicità, il pop, la leggerezza, il cazzeggio postmoderno. Ma con trent’anni di ritardo rispetto a tutti. Ecco anche l’imbarcata di Maria De Filippi, Fiorello, Jovanotti, Sanremo, Lucca Comics trasformato poi in momento culturale imprescindibile. Tutto ormai poteva diventare di sinistra. Tutto poteva essere un po’ intellettualizzato e appesantito sciacquando i panni da Fazio; Checco Zalone finì a fare un film con Virzì – il più brutto dei suoi, ovviamente. Qui entrano in gioco le agghiaccianti strategie di comunicazione del Pd che hanno traumatizzato la mia generazione e trasformato i “creativi del Pd” in una delle categorie più bullizzate d’Italia. Ogni tanto, quando sono un po’ giù di morale mi rivedo qualche vecchio spot. Per esempio c’è “Oh HaPDay” – parodia di “Santa Claus is coming to town”, cantata in playback, ballata da varie persone dello staff di Bersani e responsabili della comunicazione e del sito del Pd addobbati con gadget natalizi, e finale con Bersani che spunta da un alberello di Natale con un cartello: “Ohi ragassi, siam troppo forti. Auguri”. C’è l’immortale “I Am Pd” che “l’Archivio degli spot politici” descrive così: “Spot elettorale amatoriale, realizzato da alcuni sostenitori del Partito Democratico in occasione delle elezioni politiche del 2008: simpatizzanti del partito ripresi in situazioni quotidiane che, sulle note della canzone ‘Ymca’ dei Village People, cantano di ‘I’m Pd’ e invitano a sostenere Veltroni”. Video presto rimosso su YouTube perché i Village People non furono né avvertiti, né pagati (nel frattempo sono entrati nel pantheon Maga, molto amati da Trump, che invece li ha pagati e pure tanto). Però niente raggiunge il livello dell’“l’inclassificabile ma terrificante”, come ricorda Filippo Ceccarelli, “Operazione giaguaro”: funzionari, segretari, dirigenti del Pd appostati in una terrazza condominiale che si battono le mani sulle cosce “in una specie di danza dal sapore tribale gridando sempre più forte e veloce lo smacchia mo… lo sma-cchia-mo”. Nessuno
di noi può averlo dimenticato. Sogno un’installazione alla Biennale: un montaggio in loop senza pause, un film à la Warhol, con tutti gli spot del Pd dal 2007 a oggi. Video, clip, ma anche manifesti, campagne, slogan. Tutto. Confesso anche di avere un debole per la letteratura sul Pd. Un imbarazzante feticismo per quella saggistica traboccante che il dramma di questo partito – che non è partito ma una grande orchestra sinfonica di cuori infranti della sinistra – ha prodotto in questi anni. Nel macrogenere “crisi della sinistra”, il filone libresco “identità del Pd” è il più ricco. Qualche titolo a caso: “Pd davvero”, “Cercasi Pd disperatamente”, “Le belle bandiere e il colore perduto del Pd”, “Lettera a un partito mai nato”, “Un partito sbagliato”, “Un partito da rifare”, “Pd: che fare?”, “Fallire per vincere?” e potremmo continuare a lungo. Tutta questa letteratura – che non ha eguali in nessun’altra forza politica conosciuta o sconosciuta – è la prova che il Pd non è mai stato davvero un partito ma una categoria dello spirito. Una condizione esistenziale. E’ il nostro super-Io progressista nevrotico, quello che ci fa sentire in colpa qualunque cosa facciamo perché avremmo potuto farla meglio, più inclusivamente, dopo un confronto più ampio, naturalmente con la base. Quella parte di noi che vuole cambiare tutto ma ha paura di perdere qualcosa, che sogna grandi rivoluzioni ma poi si spaventa anche delle riforme. E’ il tormento dell’incompiutezza elevato a sistema, l’insoddisfazione cronica come bussola morale, l’autocritica infinita come forma di identità. Tutti abbiamo una parte di Pd nel profondo, anche quelli che lo odiano – soprattutto quelli che lo odiano, perché per odiare così tanto una cosa devi riconoscere una parte di te. Il Pd dissimulava, rifiutava, combatteva la sua arci-italianità, ma ne era il compimento supremo non meno del berlusconismo. Il dramma di molti elettori è che il Pd era l’unica sinistra possibile. E in questi anni non ho mai incontrato qualcuno non dico convinto di votarlo ma neanche vagamente ben disposto. Votare Pd era sempre, sistematicamente, un dramma. L’unità di misura della tristezza di essere di sinistra nel XXI secolo. Votare Berlusconi dava almeno il brivido della trasgressione, uno sberleffo, un gesto situazionista, tiè! – senza naturalmente confessarlo a nessuno. Ma il voto al Pd non aveva alcun fascino. Bisognava votare Pd “perché sennò vinceva Berlusconi”, perché sennò si “consegnava il Paese alle destre”, perché si doveva “difendere la Costituzione”. Se eri di sinistra il Pd sembrava una Dc che non se n’era mai andata. Peggio: la Dc che rientrava in pista con gli ex-Pci in prima fila. Quindici anni fa i miei amici di sinistra odiavano il Pd perché era troppo poco di sinistra. Ora lo rimproverano di essersi spostato troppo a sinistra. A me è sempre sembrato immobile. Il partito delle vecchie zie di Longanesi. Poi arrivò Renzi. E fu tutto diverso per un momento – un lunghissimo, evanescente momento. Ammetto che un po’ ci cascai anch’io. Con Renzi sembrava davvero che qualcosa stesse cambiando: passo spedito, maniche di camicia, ospitata da Maria De Filippi, riferimenti pop, Recalcati e Pasolini. A differenza di tutti i segretari che l’avevano preceduto, Renzi sapeva stare in tv. Non era Obama, ma era giovane, cresciuto con Mtv, parlava veloce, faceva le dirette Facebook, diceva “spending review”, “Jobs Act”, “disruption”, paragonava i sindacati a uno che vuole “infilare un gettone nell’iPhone”. Come diceva Claudio Giunta, tra i primi a smontare la retorica renziana, “è uno di noi, perché non dovremmo amare Matteo Renzi?”. Nei giorni di gloria del renzismo, Christian Rocca curò un’antologia di saggi della meglio gioventù di allora (chi più chi meno): “Non si può tornare indietro. Cronache brillanti dell’Italia che cambia” celebrava insieme le promesse di svecchiamento del renzismo e una nuova generazione di scrittori, intellettuali, giornalisti che magari renziani non erano ma avevano grosso modo quarant’anni come lui (“il libro emblema di una generazione alla prova del potere”; diceva la retrocopertina, seguito da “Decrescita è un concetto innaturale” – firmato Jovanotti). C’erano Francesco Costa, Luca Sofri, Claudio Cerasa, Mattia Feltri, Masneri con cui non facevo ancora coppia e Jovanotti. C’ero anche io. Rileggendolo dieci anni dopo non cambierei una riga. Tranne il titolo: in Italia si può sempre tornare indietro. Spesso si può solo tornare indietro. Il renzismo, inteso come ultimo tentativo del Pd di essere desiderabile, svanì, andò a schiantarsi contro un referendum evitabile e restò nel flusso delle correnti come colpa da emendare che dai e dai avrebbe portato a Schlein. Qui torna utile un dettaglio, una cosa da niente, ma ripensandoci col senno di poi diceva tutto. A un certo punto – in quello spazio tra la fine di Renzi e l’arrivo di Schlein – Michela Murgia disse che aveva letto un romanzo di Veltroni e le era sembrato uno dei libri più brutti di sempre. Non era solo una stroncatura. Bisogna tenere conto del tempismo: eravamo a ridosso del Black Lives Matter e l’onda woke stava montando anche da noi. Come nelle dispute tra classici e romantici, in quell’attacco a Veltroni non c’era una contesa letteraria, ma la spia di un cambiamento epocale. In una specie di disgusto morale verso tutto quello che quel romanzo rappresentava, Murgia dichiarava finita per sempre quella sinistra borghese, moderata, quel centrosinistra, quel Pd e il middlebrow dei gialli di Veltroni. Veltronismo, renzismo, correntismi a seguire andavano tutti buttati al cesso in nome di social justice, fluidità, femminismo incazzoso, schwa, asterischi, galassie di pronomi e fascismo da misurare col fascistometro e combattere in ogni angolo del paese. Quelli che non hanno visto arrivare Schlein hanno sottovalutato quanto il woke-murgismo stesse preparando il terreno al nuovo Pd con la kefiah. Non più “l’Italia migliore” ma “l’Italia da smontare”. Non più conquistare il centro ma spostare l’Overton window. Non primarie ma assemblee d’istituto. Non più maggioranza ma intersezionalità.
Ancora oggi, nelle estenuanti discussioni sul Pd, prima o poi si evoca “lo spirito del Lingotto”. Un’età dell’oro perduta, un momento di purezza originaria da cui tutto sarebbe poi degenerato. Nel 2007 Veltroni aveva cinquantadue anni, era quindi “giovane” – secondo quella particolare accezione italiana della giovinezza politica che inizia sui cinquanta e finisce dopo gli ottanta. Piero Fassino lo chiamò sul palco dicendo, “di tutti noi Veltroni è il più fresco” – riferendosi però al gran caldo che opprimeva l’uditorio nell’hangar di Renzo Piano: tutti sudavano, Walter aveva la freddezza di un giocatore di poker ultimo di mano. Teneva in mano trentatré cartelle dattiloscritte che avrebbe snocciolato in un intervento di novantasei minuti. C’era di tutto: precariato, anziani, immigrazione, piccole imprese, cultura, infrastrutture, scuola, giustizia, ambiente. Rivedendolo oggi su YouTube, colpisce però più che altro la scenografia: alle spalle di Veltroni c’è un cartonato tipo late night americani, lo skyline di Letterman, quella roba lì, solo che al posto dei grattacieli di Manhattan c’è il profilo di comignoli, tetti spioventi, campanili. La metafora perfetta del Pd: un’aspirazione atlantica (Obama! Le primarie! Yes We Can!) e l’italianissima spianata di campanili, comignoli, tegole pericolanti. America-come-desiderio e Italia-come-destino, come in quei vecchi varietà con la Broadway di cartone nei teatrini sgangherati dei ricordi di Fellini. Altro dettaglio ricco di profezie involontarie che alcuni colsero subito: la musica. Walter finisce di parlare e parte “A Whiter Shade of Pale” dei Procol Harum nella versione dei Dik Dik, “Senza luce”. Senza luce. Lasciate che questo dettaglio penetri per un momento. Gustatelo. “Si è spenta già la luce” come colonna sonora per una nascita. Di una perfezione involontaria. Così sublime che quasi viene voglia di applaudire ancora oggi. Il Pd nasceva nostalgico, convinto che il suo momento migliore fosse quello inaugurale, che tutto dopo sarebbe stata una lenta discesa dal Lingotto verso la palude della politica reale e delle correnti. Sedici mesi dopo quel discorso, Veltroni si sarebbe dimesso da segretario. Roma – la Roma di Veltroni, la Roma che doveva essere la vetrina del nuovo modo di fare politica – avrebbe cominciato la sua discesa verso il caos. Ma quanto poteva reggere un Pd costruito sul “modello Roma”? E come è stato possibile pensare di “modellare” qualcosa su Roma? Diciotto anni dopo, guardando indietro, quello che colpisce non è quanto le cose siano andate male – anche se sono andate male, oggettivamente, nelle modalità più prevedibili possibili. Quello che colpisce è quanto tutto fosse già lì, in quel discorso, in quella sala, in quel finto Letterman, in quel “si è spenta già la luuuceeee…”.
“Lo scopo era portare la sinistra al governo”dicevaunGuzzanti-Veltroni “sennò portate voi la sinistra e noi portiamo le pizzette, il vino…”
Non solo l’inseguimento di
Berlusconi, ma il tentativo patetico di mostrarsi in sintonia con tutto ciò che a sinistra si era sempre schifato Poi arrivò Renzi. A differenza dei segretari che l’avevano preceduto, sapevastareintv.Eragiovane,diceva “spending review” e “disruption” Quellichenonhannovistoarrivare
Schlein hanno sottovalutato quanto il woke-murgismo stesse preparando il terreno al nuovo Pd con la kefiah





