«Fare la guerra agli ucraini è dura, siamo lo stesso popolo», confessa Sasha, un soldato sulla quarantina. «È come combattere contro noi stessi». Con i suoi occhi azzurro ghiaccio, mento squadrato e braccia muscolose, sembra uscito da un vecchio film di guerra sovietico. Sul suo viso si notano piccole ferite, risultato di un salto faccia in giù in una trincea per sfuggire a una bomba lanciata da un drone. Mentre sorseggia samogon, una vodka artigianale, racconta di essere un militare di carriera, con esperienze nella Marina, in Siria e ora sul fronte di Kherson. Ha molti parenti in Ucraina, alcuni dei quali combattono per Kyiv. Prega ogni giorno di non incontrarli sul campo di battaglia.
Una volta, la sua unità ha catturato un soldato ucraino. «Sinceramente ho provato una gran pena», dice Sasha. «Diceva che non voleva combattere e io stesso non volevo farlo contro di lui».
Sasha non risponde alle chiamate in arrivo della moglie. «Capirebbe dalla voce che sono un po’ brillo e mi rimprovererebbe», spiega sorridendo il soldato. Mi mostra la foto di lei e dei loro quattro figli. Il suo sguardo si fa triste. Ha passato sei mesi senza vederli.
Di fronte a Sasha sta seduto un militare corpulento di nome Artem. Prima del conflitto, Artem lavorava come specialista di alto livello in una delle più grandi aziende del Paese. Ha scelto di arruolarsi come volontario dopo la scomparsa di alcuni suoi familiari, secondo lui uccisi da militari ucraini all’inizio della guerra.
Il suo compito ora è gestire sistemi antiaerei e pianificare le offensive. Dalle sue decisioni, racconta, dipendono innumerevoli vite. «Io disegno delle frecce su una mappa e i soldati avanzano», spiega Artem dopo aver stappato l’ennesima birra.
A volte Artem si trova nella difficile posizione di inviare all’attacco squadre di uomini, ben consapevole che le loro possibilità di sopravvivenza sono quasi nulle. La tattica ha lo scopo di distrarre le forze nemiche, fungendo da diversivo mentre l’offensiva principale si svolge altrove.
«Non posso dirlo agli uomini, altrimenti non combatterebbero con la speranza di vincere», spiega il militare con gli occhi umidi di emozione. «E dopo tutto questo non si dorme bene», racconta, indicando le ciocche di capelli grigi comparse negli ultimi mesi. Essendo benestante, Artem ha rinunciato allo stipendio militare. «Non voglio essere pagato per uccidere persone», afferma.
Alcuni soldati sono visibilmente ubriachi. Un malinteso scatena una lite tra Sasha e un altro passeggero; sembra che stiano per venire alle mani, ma poi si calmano. La tensione si trasforma in una competizione improvvisata di flessioni tra i tavoli del vagone, sotto gli sguardi irritati del personale.
I soldati descrivono il fronte come l’inferno sulla terra. Le perdite sono enormi: circa duecento ogni giorno, dicono alcuni. I droni seminano morte dal cielo e finiscono i soldati feriti sul campo di battaglia.
Pasha ha sempre una granata appesa alla cintura, racconta, pronto a farsi esplodere piuttosto che finire prigioniero e rischiare di essere torturato. «Molti ragazzi giovani che conoscevo sono morti, non avevano neanche trent’anni», racconta Marat, un padre di famiglia del Tatarstan, chiamato alle armi con la mobilitazione parziale del 2022. «Tra noi mobilitati siamo rimasti in pochi». Lo scorso dicembre era nascosto con altri uomini in una casa sul fronte di Vuledar quando un tank li ha scoperti e ha aperto il fuoco, ferendolo a una gamba. Per la ferita ha ricevuto un indennizzo di tre milioni di rubli (circa 30.000 euro) che ha usato per comprare una casa nuova.
Nonostante la scheggia ancora piantata nella gamba e la diagnosi di stress post traumatico, Marat è stato ritenuto idoneo al servizio e rispedito al fronte. «Se non rischiassi cinque anni di carcere per diserzione, uscirei ora dal treno e me ne andrei a casa anche a piedi – si sfoga -. Questa guerra è priva di senso».
Un altro soldato, diretto al fronte, sorride amaramente: «Probabilmente non ce la farò questa volta», dice, indicando la ferita da arma da fuoco al petto, dalla quale non è ancora completamente guarito. Sia Sasha che Artem non hanno dubbi che la Russia vincerà alla fine, nonostante l’enorme costo in termini di vite umane. «Ci riprendiamo le nostre terre storiche», dice Sasha, convinto che l’Ucraina non sia mai stata una nazione sovrana. «La Russia non andrà oltre a meno che i Paesi Nato non ci attacchino», aggiunge. Artem compara la guerra in corso alla sfida tra due pugili: «Alla fine, saranno loro a esaurire le energie per primi».
Sono quasi le undici di sera e il vagone ristorante sta per chiudere. Uno dei militari si alza e propone un brindisi. L’atmosfera, prima rumorosa e allegra, diventa improvvisamente cupa e solenne. «Per i ragazzi», dice il soldato. Sasha e Artem si alzano con tutti gli altri e bevono in silenzio.