Una valle strettissima in territorio piacentino, fresca d’estate e gelata d’inverno. Lo sterrato è nascosto dagli alberi e su Google non c’è. Ecco due appezzamenti di grano antico e attorno more selvatiche, noccioli e ginestre. Più in fondo, due casupole segnano l’inizio di un villaggio abbandonato da tempo. Sono i muri che il mio inimitabile amico Gipi dei Malvisi sta ricostruendo pietra su pietra per abitarli a modo suo, per viverci come se la modernità non fosse mai arrivata, alla ricerca della felicità assoluta.
L’ultimo agricoltore ci attende sorridente e scalzo. Smettere le scarpe non è l’unica sua scelta radicale. Qui non arrivano acqua, luce e gas. Le giornate sono scandite dalla luce naturale, dopo il tramonto si legge a lume di candela o si osservano le stelle che qui sono disegnate con la foglia d’oro.
La sua storia potrebbe essere quella di tutti. Un padre intellettuale, una madre modella, una vita ordinaria finché un mattino davanti al pacco dei biscotti del Mulino Bianco, come un piccolo barone rampante Gipi giura ad alta voce, «da grande vivrò come il nonno!». È andata proprio così. Gipi è ormai l’ultimo uomo al mondo a parlare il dialetto di San Michele di Morfasso, il suo vocabolario manoscritto un giorno sarà donato ai Lincei così come la collezione di ventimila libri dal Seicento. Molti sono manuali sulla lavorazione del legno, cose che all’intelligenza artificiale non interessano per nulla, così come gli strumenti per produrre il tagliere che ha scavato per me da una trave di quercia del 1840. Entrare nel suo laboratorio è come immergersi in un sapere perduto. Ecco lime, scalpelli, sgorbie, scuri, accette, tenaglie, un trapano a mezzo giro che un trisavolo portò da Boston e ancora raspe, cacciaviti, roncole, seghe, pialletti, allicciatori e il banco da falegname su cui Gipi ha inciso una dedica a Ricciarda e a nostro figlio Alberico Riccio in latino. Tutto normale per un uomo di cinquant’anni che parla sei lingue e si esprime liberamente in esperanto.
Sapienze antiche con cui Gipi si guadagna da vivere. Il suo più recente capolavoro è un muro a secco lungo diciotto metri, ben solido pur senza un grammo di malta e anzi fatto in modo che un noce intercluso possa crescere tra le pietre. In cima un rosmarino e dietro nespoli verdissimi e un’orchidea solitaria e più avanti la stalla che sarà riattivata entro l’autunno. Pareti in tronchi intonacati con paglia e letame, tecnica tradizionale tramandata a voce e al centro una statua di Sant’Antonio a proteggere le bestie che per Gipi sono quasi una famiglia. Grazie a loro scoliamo una ciotola di latte appena munto, delizioso come la panna, il burro, la ricotta, la crescenza, il primo sale, il cacio verminoso e l’emozione suprema, il gelato al fiordilatte di Luna, l’amabile mucca che si affaccia alla porta, preceduta dal suono degli altri campanacci. Si chiamano Niso, Aita, Eurialo, Dafne, Tuono, Calypso e appunto Luna, sono otto tra vacche, manzi e buoi, quasi tutti figli del toro del branco che ovviamente si chiama Giove. Gipi li guida e parla con loro come a nessun animale ho mai visto fare.
C’è stato un tempo in cui Gipi girava a cavallo la Val Padana portando i suoi mestieri, oggetti in legno e fil di ferro, corsi di mura a secco e danza medievale. Si muovevano sempre in quattro, la cavalla Stella, lo spinone Pierlino tre passi avanti e il fedele Corvass sempre in cielo, senza perderli mai di vista. Uscivano fin dalle case per vederli passare e Gipi era già una leggenda quando un mattino a Modena attaccò Stella agli anelli del Duomo a due metri dalle storie bibliche di Wiligelmo e fu cacciato dai vigili urbani per una cosa che si era fatta per venti secoli. Ora che Stella non c’è più, Gipi sta tentando un’autosufficienza ancor più radicale. Una peschiera in costruzione in selciato di punta, dodici metri e profondità variabile nell’acqua deviata dal ruscello, per gamberi, cavedani e trote e poche viti autoctone per far del vino e un semenzaio in serra per il ricovero invernale di piante da frutta e verdure. C’è quasi tutto ma la strada per l’autonomia è ancora lunga. Le oche stanno in gruppo e si difendono da sole ma l’altra notte una volpe ha ucciso un tacchino e il mese scorso in pieno giorno una poiana ha fatto fuori tre galline. L’inverno poi è durissimo. Una stufa, la legna del bosco e un tabarro che porta con orgoglio da venticinque anni. Quando la stagione si fa più rigida, Gipi indossa dei calzari.
L’impresa eroica, che avremmo voluto raccontare, è tuttavia un’altra. Nessuno più in Italia è in grado di tirare l’aratro coi buoi, eppure lo si è fatto da tempo immemore. Per Gipi questa è diventata la grande sfida, costruita con indicibile fatica. Così Lampo e Tuono sono stati addestrati per mesi, prima al giogo singolo appena appoggiato, poi alla zueina con una fascina da trascinare, poi a una slitta. Settimane pazienti per accompagnarli a vincere le paure, premiati di tanto in tanto con orzo e mais, fin quando Lampo a destra e Tuono a sinistra hanno iniziato a trainare l’aratro. La prima vittoria è stata l’erpicatura. Si avvicinava finalmente la semina quando all’improvviso, alla vigilia dell’aratura, Lampo si è ammalato. Parlare con Gipi della malattia di Lampo significa smuovere un peso incagliato nel profondo dell’anima. È stata un’agonia terribile. Confortato e accudito da Gipi per sette giorni e sette notti, Lampo è morto all’alba dell’ottavo, malgrado una fila di veterinari incapaci di salvarlo. Non c’è stato nulla da fare. Ironia della sorte, Gipi non ha manco potuto vendere quei sei quintali di carne perché nessun macellaio è arrivato fin quassù prima che spirasse, anzi una legge dello Stato gli ha imposto di sostenere i costi della cremazione. Una vera beffa, oltre l’impietosa tristezza per la perdita dell’amico bue, dopo anni di lavoro, sacrifici e parole sussurrate con dolcezza. L’ultima notte di Gipi che piange sconsolato e abbraccia il suo Lampo fino all’ultimo respiro, è una delle immagini più potenti che si possano immaginare.