
San Sebastiano ha perso le frecce . L’arte è indolore
12 Ottobre 2025
Sarà dura fare a meno del sorriso e della grazia impacciata di Diane Keaton
12 Ottobre 2025ANTICIPAZIONE
«Congar infermo mi accolse in ospedale con un sorriso sereno. De Lubac non faceva pesare le sue immense conoscenze» Bruno Forte ricorda gli incontri con i suoi maestri
La percezione della possibilità feconda dell’incontro col mistero santo nella Chiesa emerge nel “rinnovamento ecclesiologico” del XX secolo, di cui un pensatore come Yves Congar è stato eminente protagonista e interprete: è stato lui a notare che le cause più profonde e decisive di quel rinnovamento furono di ordine spirituale, individuandole nella vigorosa presa di coscienza del soprannaturale provocata dall’azione antimodernista, nel movimento liturgico, nell’intensificazione della vita eucaristica, nel ritorno alle fonti bibliche e patristiche, nella riscoperta del ruolo attivo del laicato, nei primi impulsi del movimento ecumenico moderno, in uno slancio – insomma – di ordine spirituale, che fu vissuto prima d’essere formulato. Nella lettura di Congar la rinnovata visione ecclesiologica si venne configurando come un superamento della concezione fortemente giuridica dell’ecclesiologia della Controriforma, nel senso di una riscoperta degli elementi soprannaturali e mistici della Chiesa. L’approfondimento dell’idea della Chiesa comunione impegnerà Yves Congar per tutta la vita, influenzando profondamente il magistero del Concilio Vaticano II: resta perciò per me indelebile il ricordo dell’ultimo dialogo che ebbi con lui infermo, ricoverato in ospedale a Parigi. Volli esprimergli la gratitudine per tutto quanto avevo appreso dai suoi testi: la sua risposta fu semplicemente quella di un sorriso, tanto umile quanto sereno. Il maggior ecclesiologo del Novecento si presentava all’ultimo traguardo totalmente abbandonato a Dio, nella povertà di un letto d’ospedale, fiducioso nella comunione della Chiesa che lo accompagnava sulla soglia della comunione dei santi. Altro maestro cui ha attinto il mio pensiero teologico è Henry de Lubac: suo grande merito è stato riproporre il primato del soprannaturale nella visione cristiana dell’esistenza umana e della vita ecclesiale. Come afferma in una delle sue opere chiave, «non è il soprannaturale che si spiegherebbe attraverso la natura, almeno come postulato da essa: al contrario, è la natura che si spiega, agli occhi della fede, attraverso il soprannaturale, come voluta per esso. «È il fine che è primo e che richiama e recluta i mezzi (Paul Claudel)» ( Il Mistero del Soprannaturale, Il Mulino, Bologna 1967). Con de Lubac ebbi diversi contatti ai tempi dei miei soggiorni di studi e ricerche a Parigi: ricordo in particolare un lungo colloquio con lui, durante il quale da giovane teologo curioso gli posi innumerevoli domande. Egli ascoltò e rispose a tutto con pazienza ammirevole, anche se alla fine con un dolcissimo tratto mi disse «ora potrei morire in pace perché ho fatto la mia confessione generale!». Alla domanda che gli posi su quale fosse stato il tempo più difficile della sua vita, alla quale credevo rispondesse ricordando gli anni in cui fu sospeso dall’insegnamento per sospetto di eterodossia, il grande de Lubac rispose: « Il tempo più difficile per me è forse quello di oggi perché vedo troppi figli della Chiesa amare troppo poco la Chiesa». Risplendeva in queste parole quella che mi apparve chiaramente la sua grandezza: uomo di immense conoscenze, egli metteva al primo posto non sé stesso, ma la Chiesa, al cui servizio aveva posto con passione e fedeltà la sua vita intera!
Un accenno mi sembra poi doveroso fare al contributo alla ricerca teologica del Novecento del gesuita Bernard Lonergan: se fu sua ferma convinzione che la teologia dovesse portare con rigore alla parola la vita illuminata dalla fede, perché l’esistenza redenta stia fedelmente sotto il giudizio della rivelazione divina, è non di meno rilevante il pensiero che la teologia serva la comunione in quanto educa a un linguaggio, che consenta la comunicazione fra le più diverse situazioni storiche dell’esperienza credente nel rispetto della loro originalità e dignità. In quanto la vera radice e il vero fondamento dell’unità è l’essere innamorati di Dio, la teologia mostra come la vera minaccia alla comunione ecclesiale stia nell’assenza di conversione intellettuale o morale o religiosa, sforzandosi perciò di elaborare un linguaggio e un pensiero della fede che riflettano questa conversione e che siano aperti a tutte le possibili, differenti espressioni di essa (cf. specialmente Il metodo in teologia, Città Nuova, Roma 2001, e Insight.ib., 2007). La teologia non dovrà mortificare la diversità, ma tendere a radicarla nell’alveo vitale in cui essa si offre come feconda: la comunione della speranza, della carità e della fede ecclesiali, la realtà del popolo dei pellegrini, che nella varietà dei luoghi e dei tempi non cessa di stare sotto il giudizio e la consolazione dell’unica Parola del Dio vivente e santo, custodita nei testi della rivelazione e trasmessa nella tradizione della fede viva della Chiesa.