Nell’orizzonte di Terry Gilliam c’è l’Apocalisse. Un progetto cui sta lavorando da anni, perfettamente in linea con l’aria del tempo, da realizzare con l’amico di sempre Johnny Depp: «Il titolo – spiega l’autore, premiato con la Stella della Mole – è Carnival: At the End of Days. Racconta la storia di Dio che decide di distruggere l’umanità, colpevole di aver deturpato il giardino che Lui aveva creato. Johnny dovrebbe interpretare Satana, ha detto che per me lo farebbe, se fossi riuscito a trovare i soldi per girare il film. Su questo sto ancora lavorando, ci vorrà un po’ di tempo, ma io di pazienza ne ho tanta». Ospite del Tff, dove ha parlato di Paura e delirio a Las Vegas, girato nel 1998 e ormai cult venerato da generazioni di spettatori, Gilliam assapora, a 85 anni, il piacere di dire, ancor più liberamente che in passato, tutto quello che pensa: «Una cosa è però certa – dichiara a proposito del suo progetto –: non lo gireremo in Italia, non sarà, insomma, un film della Meloni, a causa del tax credit che è diminuito dal 40% al 30%. Ero entusiasta all’idea di girare a Cinecittà, ma con queste nuove regole, non succederà mai. Però non preoccupatevi, avrete Mel Gibson che girerà a Matera e anche a Roma con un Cristo come non l’avete mai visto, un Cristo che prende a calci la gente».

A Johnny Depp è da sempre legato, questo vale anche per il compianto Heath Ledger. Due miti del grande schermo. Cos’ ha trovato in loro?

«Sono due persone molto intelligenti, dotate di un fortissimo senso dell’umorismo, con un talento particolare. Mi piace lavorare con attori così, capaci di intuire quello che ho in mente e di reagire in modo molto veloce alle mie indicazioni. Con Johnny e anche con Heath, abbiamo riso tantissimo, e questo è il modo in cui mi piace lavorare. Mi hanno ricordato me stesso quando ero giovane».

Era anche legato a Robin Williams: chi era per lei?
«Un uomo meraviglioso. Una delle menti più vivaci del pianeta, se avesse continuato a vivere, oggi sarebbe uno degli autori più importanti della sua generazione».

Ha raccontato che Brazil ebbe un esito iniziale disastroso, poi è diventato un altro dei suoi film più celebrati. Secondo lei perché?

«È vero, all’inizio sembrava che il pubblico non lo amasse affatto, durante il tour promozionale nell’intervallo il pubblico si dimezzava, le sale erano quasi deserte. Poi è successo che il film sia rimasto, e che quei posti vuoti siano stati dimenticati. Credo in tutti i film che giro, anche se dovessi farli per una sola persona, quello che per me conta è, appunto, farli. Il pubblico è un insieme di persone, una massa abbastanza fluida, anche soggetta alle mode, a quello che può piacere o non piacere in quel determinato momento. I critici, spesso, non sono stati buoni con me, ma io li ho presi sempre con molta serietà, come ho sempre preso con serietà chi, invece, ha condiviso la mia visione e l’ha approvata. Quello che conta è la storia e a ciascuno spetta decidere se una storia è stata raccontata bene oppure no».

Cosa significa per lei essere regista?
«Significa essere vivo e non ancora morto. Fare film è un lavoro molto complicato, comprende tanti diversi aspetti, scrittura, suono, recitazione, musica, danza… ed è anche un lavoro incredibilmente stimolante, che alla fine ti fa andare fuori di testa. Tutto questo mi rende vivo, quando non lavoro comincio a invecchiare molto velocemente».

Se guarda la sua vita, di che cosa è più felice?
«Le cose più belle della mia vita sono quelle che non volevo e che mi hanno costretto a fare. Non volevo una casa, non volevo sposarmi, non volevo dei figli. Mia moglie mi ha convinto, e adesso sono felicissimo di avere dei nipoti».

La sua intera carriera si basa su invenzione, fantasia, anticonformismo. Cosa pensa dell’Ai?
«L’intelligenza artificiale è, appunto, artificiale per definizione, quindi è molto onesta nel definirsi. Non ho idea delle potenzialità che potrebbe sviluppare, trovo che sia estremamente ripetitiva, posso dire che qualche giorno fa sono riuscito, attraverso Chat Gpt, a entrare in contatto con uno degli Avengers e alla fine, dopo 10 minuti, sono riuscito a fargli ammettere che è un computer e non un essere umano. L’Ai è una combinazione di cose che possono anche risultare utili a livello creativo, ma è pur vero che ci saranno un sacco di posti di lavoro destinati a scomparire proprio a causa sua. Per questo raccomando a tutti di imparare a fare i saldatori, gli idraulici e i carpentieri, perché sono mestieri che serviranno sempre».

 

 

Ha un rapporto stretto con l’Italia. Da che cosa nasce?
«Mi piace moltissimo l’Italia, la gente, lo stile di vita, il fatto che sia un Paese con una storia lunghissima, con periodi buoni e altri brutti, ma anche con una capacità di conservare sempre una grande umanità. Trovo che sia il posto del mondo in questa caratteristica è più forte ed evidente».

Viviamo nell’epoca del politically correct, oggi certe gag dei Monty Python, sarebbero improponibili. Che ne dice?
«In Germania, mentre stavamo promuovendo The Man Who Killed Don Quixote ci è stato detto proprio che adesso la Bbc non avrebbe permesso un programma come il nostro, con protagonisti sei bianchi maschi adulti, ci doveva essere più diversità. E devo dire che come uomo bianco sono stanco di essere accusato di tutto quello che accade nel mondo. Cosa avremmo dovuto fare oggi? Assumere una donna, di colore e omosessuale? Credo che quando si arriva a non riconoscere più la differenza tra umorismo e odio, siamo nei guai. Viviamo da anni in questa visione limitata del mondo, spero che cambi».

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