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Al Maxxi le fotografie di Shomei Tomatsu e Daido Moriyama mostrano la capitale giapponese dal punto di vista inedito di un randagio
diGregorio Botta
Due cani randagi hanno fotografato – e uno fotografa ancora – in lungo e in largo, in basso e in alto, il ritmo pulsante di Tokyo, il suo cuore frenetico, le miserie e gli splendori, le solitudini e la folla, l’ordine e il caos della metropoli più misteriosa per lo sguardo occidentale. Il primo è Shomei Tomatsu, (1930-2012), leggendaria figura di fotografo vagabondo, sempre in giro con la sua camera a riprendere scene di strada, spesso manifestazioni, proteste, rivolte. L’altro è il pluripremiato Daido Moriyama, ormai 84enne, suo allievo, seguace, amico. Del maestro dice : «Non c’è dubbio che per me tutto abbia avuto inizio con Tomatsu».
Cani randagi: sono loro a definirsi così. «Mentre mi aggiravo per le strade senza sapere dove avrei trascorso la notte seguente – ha scritto Tomatsu nel 1976 – cominciai a notare un sacco di cose. Pezzetti di carta, lattine schiacciate, scarpe, tappi di bottiglia, bottoni, quotidiani, riviste, sacchetti di plastica, … a volte trovavo soldi, un giorno persino una banconota da 1000 yen… chi corre verso casa non nota tutta quella spazzatura e tutti quegli oggetti smarriti. Solo quando adottai lo sguardo di un cane randagio queste cose – che avevo già visto senza accorgermene – mi apparvero davvero familiari… l’asfalto è la pelle della città». Nacque così una bellissima serie, chiamata, appunto,Asphalt.
Ma anche Daido Moriyama si identifica in un cane. L’immagine di un randagio non particolarmente amichevole, dallo sguardo obliquo, forse minaccioso, forse spaventato, certamente malinconico, è diventata una sorta di autoritratto. E anche un’icona. Ne hanno fatto persino dei gadget, stampandolo su magliette, orologi, tazze da tè.Non a caso quando ha scritto la sua autobiografia, Daido l’ha intitolataRicordi di un cane.
Ora centinaia, se non migliaia delle visioni strappate alla città da questi due vagabondi dello sguardo, sono esposte al Maxxi, a Roma, (Tokyo revisited, Daido Moriyama with Shomei Tomatsu, a cura di Hou Hanru e Elena Motisi, fino al 16 ottobre), in una mostra che cerca di restituire nel bell’allestimento il caos vitale della città – se ne sentono persino i rumori, attraverso gli schermi che mandano in loop immagini su immagini – e la bulimia visiva dei due fotografi. Soprattutto quella di Moriyama, che è il vero protagonista della mostra, e che ha portato alle più radicali conseguenze la lezione del maestro. Decidendo di fotografare sempre e tutto, rovesciando il comandamento dell’eleganza estetica “less is more”, nel suo contrario: di più è meglio. Il suo consiglio agli esordienti è: «Uscite. Sta tutto nell’uscire e camminare. Questa è la prima cosa. La seconda è dimenticarsi per un momento tutto ciò che si è imparato sulla fotografia e scattare. Immortalate qualunque e qualsiasi cosa purché catturi il vostro sguardo. Non fermatevi a pensare».
È quello che fa lui, armato di macchine fotografiche sempre piccole e agili, per poter scattare foto all’improvviso magari dall’auto in corsa, o senza neanche guardare cosa sta inquadrando, riprendendo solo le gambe o i piedi dei passanti su un marciapiedi.
Sono spesso immagini sgranate, offuscate, fuori fuoco, “sbagliate” ma che proprio per questo restituiscono il movimento della metropoli. «Moriyama non fa fotografie di Tokyo ma a Tokyo», osserva nel catalogo Elena Mottisi. Inevitabile – nota Hou Hanru nel suo saggio – il riferimento all’Ukiyo-e, il mondo fluttuante immortalato dalle stampe giapponesi. Ma nel caso di Daido quello che fluttua è la macchina fotografica, dispositivo mobilissimo e sorprendente, in servizio continuato effettivo. Una vertigine dell’accumulo ossessiona quest’artista, tanto da spingerlo a pubblicare una rivista fatta solo delle sue istantanee: si intitola Record, ne sono usciti più di 50 numeri (molti sono esposti al Maxxi) e sono per Moriyama il vero fulcro del suo lavoro. «Grazie a Record riesco a stabilire un contatto intenso con le persone e il mondo… è un’àncora di salvezza, al pari di elettricità, gas e acqua ». I cataloghi visivi che ha voluto curare lui stesso per la mostra ne portano l’impronta. Solo immagini, quasi tutte in bianco e nero, nessuna didascalia.
Naturalmente ci sono anche inquadrature perfette, studiate, in posa: celebri quelle delle gambe in calze a rete, morbide architetture astratte che racchiudono un eros trattenuto. Eppure c’è stato un Moriyama tentato di deporre per sempre il suo obiettivo, dopo aver proclamato negli anni ’70, il suo addio alla fotografia, con un libro che per molti è stato uno shock e che per i più è inguardabile: le immagini sono illeggibili, i negativi sono bruciati, appaiono, se appaiono, solo vaghe figure fantasmatiche. In mostra ce ne è solo una, in cui si distingue a malapena l’autoritratto di Daido che sembra disciogliersi nella celluloide del rullino. Effigie di un artista sopraffatto dal troppo vedere e da un’infinita malinconia. Come rivela, in fondo, la sua frase preferita che un gran neon giallo riproduce sui muri del museo: «Il passato è sempre nuovo, il futuro è sempre nostalgico». Una specie di condanna per chi si affanna a riprendere, ogni giorno, tutti i giorni, l’eterno presente.