Lucia Annunziata
gerusalemme
È finita con un litigio a distanza, nel clima di una obbligata noblesse oblige, nondimeno drammatico. Consumato fra Gerusalemme e Tel Aviv, fra due alleati che pare condividano la stessa ostinazione sulle proprie posizioni, al punto da non aver parlato insieme e non nello stesso momento alla nazione e al mondo: Netanyahu a Gerusalemme, Blinken da Tel Aviv. Nessuna conferenza stampa congiunta, fumata nera – ma abbiate fede (in questo Paese è il caso di dirlo) non è finita qui.
Aspettavano tutti lui. Un intero Paese in attesa. Benjamin Netanyahu. Avrebbe detto sì o no alla proposta di Hamas? È arrivato in perfetto orario davanti alle telecamere di una conferenza stampa convocata a Gerusalemme, rilassato, e ha pronunciato tante frasi, usato tanti aggettivi – «eroi» è quello tornato in continuazione – per rafforzare la sua postura di comandante in chief – «una volta anche io sono stato nell’esercito» – e ha detto le uniche due frasi che valeva la pena di sentire: «Non cederemo alle richieste di Hamas fino a che non avremo ottenuto la vittoria totale». Ma poco più avanti parlando del suo colloquio con Blinken, il segretario di Stato Usa che è in Israele, dice: «Ho detto a Blinken che a Gaza siamo molto vicini al successo». Insieme le due frasi formano un altro discorso. Non è più un no, ma un «tratteremo dopo la vittoria, che, in ogni caso non è lontana».
Peccato che le due cose siano state dette separatamente, a due soggetti diversi. Ma funziona proprio così – immaginavate davvero di avere stasera l’annuncio di un accordo, la pace che scende sul Medio Oriente? Eppure non tutto è perduto, finché c’è il Premier: Bibi Netanyahu ieri sera ha mostrato di essere ancora il maestro della trattativa politica, il prestigiatore delle parole, il re del prendere tempo, dicendo sì, ma lasciando sempre una porta aperta a un no, o viceversa. La vittoria, infatti, potrebbe essere vicina, ma vicina anche alle elezioni Usa e questo è al momento l’interesse dell’amministrazione Usa.
L’accusa morale di Blinken
Qualcosa di cui sembra essere stato molto consapevole il Segretario Blinken che intervenendo con marcato ritardo alla conferenza stampa (problemi? ) a Tel Aviv ha schiacciato Netanyahu soprattutto sulla responsabilità di una guerra con troppo civili uccisi. Ricordando di aver detto fin dall’inizio di non fare un intervento di terra, cioè una invasione di Gaza che avrebbe coinvolto i civili. Ha detto questo con calma e voce piana, ma è una bella accusa, quella morale, che ha scaricato sul premier di Israele.
Qualcosa di cui sembra essere stato molto consapevole il Segretario Blinken che intervenendo con marcato ritardo alla conferenza stampa (problemi? ) a Tel Aviv ha schiacciato Netanyahu soprattutto sulla responsabilità di una guerra con troppo civili uccisi. Ricordando di aver detto fin dall’inizio di non fare un intervento di terra, cioè una invasione di Gaza che avrebbe coinvolto i civili. Ha detto questo con calma e voce piana, ma è una bella accusa, quella morale, che ha scaricato sul premier di Israele.
Blinken ha rafforzato la carta emotiva ricordando tutti quelli che soffrono, palestinesi e israeliani insieme, facendo un’equiparazione che certo non va bene a Israele. Ed ha concluso con un dito puntato: «Le vittime sono ancora troppe». Ripeto, il tono è rimasto calmo e senza malizia, ma queste chiamate in causa sono certamente un peso sulla reputazione di Netanyahu.
Come si vede, i due poli del discorso in atto fra Usa e Israele, hanno ieri sera assunto anche il volto e il tono di due persone: denso di pietà quello americano, denso di guerra quello del premier di Gerusalemme. «Siamo stati concentrati dal primo giorno a far tornare gli ostaggi e terremo questo focus fino a che li riporteremo indietro», dice Blinken sottolineando la indifferenza del Premier. «Ci sono ancora spazi per iniziative», insiste.
La distanza tra Israele e Usa
Gli spazi fra i due alleati si sono dunque allargati. Blinken lo ha indirettamente sottolineato mettendo in campo la “visione” larga con cui gli Usa stanno cercando di arrivare a un accordo. Nell’idea degli Americani, dice, si tratta di coinvolgere nel processo gli Stati arabi, che non avrebbero invece nessuna voce e nessuna possibilità di intervento nella attuale polarizzazione. Sottolineando che solo un ritorno all’idea che circolava prima dell’attacco del 7 ottobre, l’idea di una riconciliazione fra Israele e i suoi grandi vicini nemici, «può stabilizzare la regione e evitare altre crisi». Una legittimazione, la sua, che indirettamente potrebbe riconoscere un ruolo di Hamas? chiede un giornalista. Il Segretario di Stato risponde secco: «Per quel che riguarda questa parte della domanda, la risposta è no». La distanza fra i due Paesi si è, come si vede, allargata in senso di idee, ma anche molto accorciata, nel senso della sfida. È quasi un corpo a corpo. Ma, fa notare un diplomatico israeliano: «La nostra è una linea assertiva, ma non è detto che questa sia la fine». Ma, aggiunge: «È anche evidente che queste richieste di Hamas vanificherebbero la forza esistenziale di Israele. Nel ricordarlo, da parte del Premier, c’è un avvertimento alla intera Regione».
Gli spazi fra i due alleati si sono dunque allargati. Blinken lo ha indirettamente sottolineato mettendo in campo la “visione” larga con cui gli Usa stanno cercando di arrivare a un accordo. Nell’idea degli Americani, dice, si tratta di coinvolgere nel processo gli Stati arabi, che non avrebbero invece nessuna voce e nessuna possibilità di intervento nella attuale polarizzazione. Sottolineando che solo un ritorno all’idea che circolava prima dell’attacco del 7 ottobre, l’idea di una riconciliazione fra Israele e i suoi grandi vicini nemici, «può stabilizzare la regione e evitare altre crisi». Una legittimazione, la sua, che indirettamente potrebbe riconoscere un ruolo di Hamas? chiede un giornalista. Il Segretario di Stato risponde secco: «Per quel che riguarda questa parte della domanda, la risposta è no». La distanza fra i due Paesi si è, come si vede, allargata in senso di idee, ma anche molto accorciata, nel senso della sfida. È quasi un corpo a corpo. Ma, fa notare un diplomatico israeliano: «La nostra è una linea assertiva, ma non è detto che questa sia la fine». Ma, aggiunge: «È anche evidente che queste richieste di Hamas vanificherebbero la forza esistenziale di Israele. Nel ricordarlo, da parte del Premier, c’è un avvertimento alla intera Regione».
D’altra parte, gli Americani hanno in questo momento una motivazione, quella della battaglia elettorale: «Per loro evidentemente, quattro mesi di vittime a questo ritmo è troppo» dice il diplomatico. Il che significa che questa volta Washington non farà molti sconti a Gerusalemme. Già ieri sera a caldo, Haaretz scriveva: «È possibile che l’America lasci il suo grande alleato di sempre? » . La risposta non è definitiva. Abbandonare forse no, ma allentare i legami e magari coltivare i rapporti con i Paesi arabi che considera chiave nella stabilizzazione della regione. Possibile.
È uno schema elastico che si può applicare anche alla trattativa di pace. D’altra parte tutto questo può anche essere preso come un andamento naturale del ritorno alla pace. L’attacco del 7 ottobre ha devastato due nazioni, e due popoli: per Israele e per Palestina nulla appare come prima. Ricostruire, riportare a integrità questi popoli, sarà un percorso molto lungo e molto incerto.