Certo non solo coraggio e incoscienza, attrazione per l’ignoto e per il non spiegabile può dar vita all’impresa di vivere per giorni interi negli scoranti spazi pensati e messi in opera da Anselm Kiefer, artista capace di asserire senza incertezze: «Se voglio cambiare la pittura è un problema di storia dell’arte, mentre io voglio cambiare qualcosa nella storia del mondo».
Navigatore ardito, genuino argonauta, pur privo della protezione della dea Era, come Giasone, Vincenzo Trione tenta l’impresa che narra con letteraria emozione nel suo Prologo celeste per Einaudi, dopo aver esplorato quei musei-laboratorio, archivi-città che Kiefer ha titanicamente materializzato a Barjac e Croissy in Francia.
Definiti fucina creativa, laboratorio scientifico, antro alchemico, biblioteca, archivio personale, wunderkammer, poligono, piccola città e molto altro, tutti termini incapaci però di restituire l’idea che l’appassionata narrazione di Trione rende palpitante in una lettura dotta frutto di un viaggio privilegiato intriso d’autentica Wille zur Macht.
È stato Jack Lang, pirotecnico ministro della Cultura francese, a offrire a Kiefer la scelta di spazi in Francia in una lista di ben novanta location. L’artista sceglie a Barjac, la Ribaute, cadente setificio situato in un’area di 250mila metri quadri, per creare un allestimento titanico e infinito saturo di decine di costruzioni, spazi ipogei, tunnel sorretti da pilastri, piste, tali da modificare il profilo stesso della collina. La Ribaute si è così dotata di sentieri sinuosi, stagni neri con ninfee e nascoste piccole case prive di finestre. Trione dice di malinconia ovunque e del Metallo di Saturno, il piombo quello delle lastre del Duomo di Colonia o pesanti sbarre, trasportate da colonne di autocarri, utili a modellare quadri e sculture, areoplani e navi, libri e architetture.
Lì non si spreca nessun rifiuto e trionfa il gusto dell’eccesso. Immersi in drammaturgie esoteriche che evocano eroi, forse miti babilonesi, egizi o germanici, e poi intorno superfici invase da rami, paglia, sabbia, terra, capelli, frutta secca, mattoni sbriciolati. E, si sa, dipinti grandi come palazzi dove sono state inumate sostanze mummificate, ingrigite, decadute.
Soglia dopo soglia dove «le cose mi saltano addosso» come le emozioni, fatte di lingue di piombo che cadono giù e minacciano. S’incontrano navi e flotte di aerei come uccelli melanconici. Si va nell’edificio centrale, l’Anfiteatro, per incontrare container usati e montati su blocchi di cemento liquido colato, il tutto come oggetto di una quindicina di metri. Clima di angoscia. Poi c’è il Ventre della Terra. Rete di cunicoli, corridoi ciechi sordi e scuri, gallerie, botole e ovunque nessuna risposta, solo silenzio tra camere ancora rivestite di piombo, inondate d’acqua, incubi del passato. Non mancano certo le grotte le cui fondamenta Kiefer ha fatto riempire con colate di cemento per cripte graffite. Non è difficile credere a Trione quando confessa che: «Al cospetto della solennità perturbante della Ribaute mi sento sovrastato, impotente, piccolo» e percepisca «il senso di un’apocalisse avvenuta».
Per conoscere davvero Kiefer si deve ancora andare però a nord di Parigi, a trenta chilometri, vicino a Le Bourget, direzione Croissy-Beaubourg. Questo fa Trione alla scoperta del luogo in cui «Kiefer pensa, studia, scrive, conserva, distrugge, corregge, cancella». Entrare a Croissy è come aggirarsi nella mente dell’artista «un modello del mio cervello» per Kiefer che ha trasformato un grande magazzino della Samaritaine in un castello incantato dove la parola d’ordine sembra essere ancora «non buttare via nulla», Cern di Ginevra o Studio hollywoodiano o Disneyland diabolizzata.
La bulimia manifesta dell’artista si raggruma nell’imponente biblioteca colma di volumi sui miti e poi l’astrofisica, la biologia, l’alchimia, biblioteca considerata un rifugio, un luogo dove s’abbracciano arte e filosofia, poesia e scienza, è proprio lì che Kiefer dice d’incontrare cabalisti, ricercatori e poeti che lo hanno aiutato a trovare la propria monade. Si ha come l’idea che la sua ansia disperata abbia molto da fare con la ricerca dell’opera assoluta di cui scrive e parla nelle sue lezioni a Brera e Torino o, ancora meglio, l’affannosa (e vana) ricerca dell’Assoluto mediante l’arte in una sorta di ripensamento della retorica idealistico-romantica a proposito di creatività. Profluvio di citazioni, di appigli colti lontano dalla mediocrità zeroculturale del mondo dell’arte, Kiefer ha da fare con Hugo, Rimbaud o Rilke e l’amato Celan, Michelet e Bachmann e certo Kant, Benjamin e Nietzsche e non ne fa mistero nelle sue lezioni in Università o al Collège de France dove si sente di profetizzare che l’Arte sopravviverà alle sue rovine.
Se alla fine «Kiefer tende al nulla» meglio lasciare Balzac e il Chef-d’œuvre incounnu per darci alle utopie architettoniche delle sue torri, quelle di Milano o Barjac che dicono della sua modalità specifica di sentire il mondo. Sovrumane Città Ideali quelle che il filosofo Lázló Földényi vede come luoghi della morte vivente. Gelano come le vuote vedute architettoniche di Francesco di Giorgio Martini o come l’immagine della cartolina di Piazza Benacense a Riva del Garda che Kafka spedisce alla sorella Ottla nel 1913 e mostra un luogo statico e perfetto dove immobilità e assenze umane sovrastano e annientano col loro tragico silenzio.
Vincenzo Trione
Prologo celeste. Nell’atelier di Anselm Kiefer
Einaudi, pagg. 376, € 36