Torino, Palazzo dell’Accademia delle Scienze. In questa mattina d’inverno, lo studio di Christian Greco, direttore del Museo Egizio dal 2014, è pieno della luce tersa che solo le Alpi vicine sanno riverberare. Due pareti di libri, immagini di reperti egizi, targhe e riconoscimenti, una enorme foto degli anni 30 da Pompei, con antichità egizie sul bordo di una vasca, e, in un angolo, la foto di Willem-Alexander, re dei Paesi Bassi, e della regina Máxima: «L’Olanda è il Paese in cui sono arrivato a 21 anni e in cui sono rimasto per i successivi 17: è il Paese in cui sono diventato adulto, a cui devo tutto, la mia formazione, il mio ingresso nel mondo del lavoro, la mia visione del mondo, quindi mi fa molto piacere poter restituire qualcosa al Regno d’Olanda, che mi ha nominato Console onorario». E quel “Je maintiendrai” (Io manterrò), scritto sullo stemma consolare olandese all’ingresso dell’ufficio, è auspicio e promessa.
Greco, modi gentili e sguardo concentrato, è un cittadino del mondo, che si destreggia fra una decina di lingue: «Mi riconosco in molti passaggi della Medea di Euripide, che dice “ecco io sono una apolide e non appartengo a nessun luogo”. Appartengo alla generazione Erasmus e spesso, in Olanda, a lezione eravamo 20 studenti da 20 Paesi diversi. Credo fortemente in un processo di integrazione europea, di scambio e ibridazione. Da egittologo studio una cultura materiale che appartiene al mondo e che proviene dalla sponda meridionale del Mediterraneo». E che ha trovato a Torino la sede espositiva più importante fuori dall’Egitto: «I musei ci insegnano a relativizzare il nostro punto di vista, a metterci in relazione con l’altro, sono forse il primo incontro con l’altro dal punto di vista cronologico o per provenienza e ci mettono in discussione: il nostro punto di vista, le nostre idee sono parziali. Se accettiamo questo, il museo ci consente di fare un viaggio nel tempo e nello spazio, ci permette di guardare noi stessi dal di fuori, ci stimola a toglierci dalla contemporaneità e ad abbracciare nuove realtà».
In queste settimane all’Egizio l’aria è più frizzante che mai: duecento anni fa il re Carlo Felice di Savoia faceva acquistare per l’esorbitante cifra di 400mila lire piemontesi le antichità egizie di Bernardino Drovetti, dando origine alla raccolta torinese di cui già Jean-François Champollion, decifratore, due anni prima, della Stele di Rosetta, aveva capito l’importanza: «La strada per Menfi e Tebe passa da Torino». Tante le iniziative, le ristrutturazioni, le aperture in occasione del bicentenario per 23 milioni di euro di lavori ed eventi: gli incontri “What is a museum?” con i direttori dei più importanti musei del mondo, i Dialoghi dell’archeologia, la Galleria della scrittura appena inaugurata, il film Uomini e dei con Jeremy Irons, nelle sale il 12 e 13 marzo: «In estate aprirà un’altra ala il cui working title è Archeologia invisibile, che rovescia la prospettiva: non una esposizione cronologica ma un interrogarsi sulla biografia degli oggetti. Avremo una biblioteca dei legni, una dei pigmenti, una vasoteca con 8mila vasi esposti. In autunno, poi, ci fermeremo e rifletteremo sul museo con un convegno internazionale, la presentazione del libro corale sul bicentenario e con l’inaugurazione del Tempio di Ellesiya alla quale speriamo di avere la presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il monumento fu donato dall’Egitto all’Italia dopo la costruzione della Diga di Assuan e il nostro desiderio è di offrirlo a tutti gli italiani in una “piazza egizia” dove si potrà accedere gratuitamente per scoprire il Tempio, per un caffè o un libro».
Dal 2014 a oggi il Museo Egizio è entrato nel futuro: poco più di mezzo milione di visitatori nel 2013, oltre un milione nel 2023; da 13 a 75 dipendenti (228 se si contano gli esterni). Numeri frutto anche di simbiosi fra direzione e presidenza della Fondazione Museo delle Antichità Egizie: «Durante la pandemia, pur di non rallentare i progetti, Christian ed io avevamo il permesso di venire in museo: lui preparava i caffè, io i panini», ricorda la presidente Evelina Christillin, che saluta e se ne va. Anche così si crea la squadra: «Abbiamo fatto tanto perché il Museo diventi la casa di tutti – confessa il direttore con toni pacati –. Con il progetto Museo Egizio Andata/Ritorno, sostenuto da CDP, sono arrivate classi da paesi distanti da Torino; la Cultura dietro l’angolo, con il sostegno della Compagnia di San Paolo, e le Passeggiate con il direttore hanno avuto successo e lo sforzo quotidiano è far capire che in museo non si incontra l’Egitto, ma una ricostruzione museologica basata sulle fonti: conosciamo il passato come pars pro toto, è come se fosse un passato polverizzato. Molto resta da fare nell’ambito delle politiche di inclusione e il Victoria & Albert Museum di Londra è un modello di apertura e coinvolgimento della collettività. Infine, la sfida più grande: vedere in fila i visitatori oggi meno presenti, i 20-45enni, facendo capire loro che il museo non è un luogo polveroso ma di accrescimento culturale. Qui ci sono le radici di ognuno».
Ma cos’è davvero il museo? Ricordando la definizione di Aristotele del IV secolo a.C., è un centro di discussione e formazione legato all’Accademia e dedicato alle Muse (museum) dove i sapienti si interrogavano. Insomma, facevano ricerca: «Un museo senza ricerca non esiste e noi ci comportiamo in toto come un ente di ricerca». Tanto da aver scritto, con Evelina Christillin, il libro Le memorie del futuro. Musei e ricerca (Einaudi). In questi anni, è stata fondata la rivista online «RiME», open access, in italiano, inglese, francese e tedesco con abstract in arabo per ogni articolo, di modo che i risultati siano a disposizione di tutti. La Tpop (Turin Papyrus Online Platform), progetto europeo in collaborazione con gli atenei di Basilea e Liegi, rende accessibili i 17mila frammenti di papiro inediti custoditi a Torino attorno ai quali si scervella, con il supporto dell’intelligenza artificiale, una immensa comunità di studiosi. Uomini e donne appassionati che lavorano in tutto il mondo: «Nel mio ruolo di direttore, assorbito da quotidianità, gestione e grandi progetti, la ricerca è ciò che mi manca di più», confessa Greco, e i suoi occhi brillano di passione come quelli di un bimbo davanti alla carta regalo che scricchiola il giorno di Natale. «Studiare significa tenere sul tavolo decine di volumi, confrontarli, avere dubbi, immergersi, fluttuare tra parole e pensieri. Lo studio è il sale della vita e, quando finalmente trovi il termine esatto e il testo si dipana, è una scoperta meravigliosa». È il tempo che aggalla come uno stato di grazia: «Ma ancor oggi, mi rendo conto di quanto poco sappiamo dell’antico, parcellizzato com’è nella nostra conoscenza. Aveva ragione Socrate: so di non sapere». E se lo dice lui con il suo bagaglio: liceo classico al Pigafetta di Vicenza, laurea in Lettere antiche a Pavia, frequentando il prestigioso Collegio Ghislieri, master in Egittologia a Leiden (lavorando come portiere all’hotel Ibis, come guida al museo o prof di greco e latino), dottorato di ricerca a Pisa, epigrafista dell’Epigraphic Survey dell’Oriental Institute of Chicago a Luxor (e oggi tanta ricerca sul campo, nell’amato Egitto, nella campagna a Saqqara), docente in atenei italiani e internazionali, senza trascurare i riconoscimenti, fra cui quello di Torinese dell’anno e il Sigillo Civico di Torino conferito all’unanimità.
Anche il Capodanno in Piazza Castello, con vista sul bicentenario e con 10mila persone, è stato un lungo applauso all’Egizio. Di restituzione in restituzione, di progetto in progetto, Greco vuole spalancare le porte del museo e far venir voglia a tutti di entrare e capire. E si accende di passione genuina e prorompente: «Il mio sogno è quello di portare tutti gli italiani a vedere la tomba di Kha e Merit, l’unica tomba del Nuovo Regno preservata intatta fuori dall’Egitto e scoperta nel 1906 da Ernesto Schiaparelli. Il capomastro Kha e la moglie Merit, “l’amata”, riposano nei loro sarcofagi con il corredo completo di 467 reperti. Ogni giorno, le guide ripetono la loro storia, i visitatori li scoprono, ne portano a casa il ricordo e il nome, quasi facendoli vivere ancora come auspicavano gli antichi egizi: “che il giorno del funerale il tuo nome sia pronunciato da tutti i bambini del villaggio, e poi dai loro figli, e dai loro figli ancora, e ancora dai loro figli, così il tuo nome vivrà per sempre”». Il direttore si appoggia allo schienale della sedia quando ricorda Kha e Merit, perché sa che le loro vite, grazie ai nomi, sopravvivono dal 1400 a.C. a oggi, fino all’eterno. È l’immensità della storia e del fare ricerca. Ma desidera spiegare meglio, coinvolgerci, con una naturalezza disarmante, in un’emozione senza tempo. Si alza, si arrampica sulla scala della libreria alle sue spalle, prende un tomo del Wörterbuch der Ägyptischen Sprache, il dizionario della lingua egizia, e ci accompagna nella Valle dei Re: «Mi piace recuperare il concetto antico egiziano di wehem mesut, ovvero nuova nascita. Le faccio vedere come si scrive». Sfoglia alcune pagine, fitte fitte di testo e geroglifici. Punta il dito: «C’è il verbo wehem, ripetere, e mesut, nascita, quasi che la morte fosse una ripetizione della nascita». Silenzio, meraviglia e il tempo si ferma. Perché l’anelito di ogni uomo e donna è, in fondo, passare dalla morte all’eternità.