Manca un anno scarso alle elezioni e si inizia a intravedere la fine del governo di Mario Draghi. Troppo presto, peccato. In mezzo a una pandemia e a una crisi economica, mentre il parlamento si incartava a ogni piè sospinto per scaramucce di partito, la nomina di Draghi è stata una benedizione. La Lega era all’opposizione, i Cinque stelle iniziavano a sgretolarsi e la leadership di Nicola Zingaretti, ostaggio dei boiardi del Pd, era al capolinea. È stato Sergio Mattarella dal Quirinale a tagliare il nodo gordiano, chiamando Draghi nel febbraio del 2021, come mesi prima avevo auspicato su “Repubblica”.
Su molte politiche Draghi è stato brillante, persino perfetto, come nella gestione della pandemia. Il suo prestigio da ex banchiere centrale gli consentiva di avere un ruolo di guida in Europa, ed è grazie a lui che è stato possibile garantire l’arrivo dei soldi del Pnrr, già richiesti da Giuseppe Conte.
Attorniato da ministri tecnici, Draghi è stato capace di sfruttare l’inadeguatezza del sistema politico. Sempre di più i ministri si convertivano alla linea del governo piuttosto che a quella del partito. È stato così per i ministri del Pd di Enrico Letta e anche Luigi Di Maio e Giancarlo Giorgetti si sono convertiti alla linea del governo. Hanno giovato della forte popolarità del premier che ha cominciato il suo incarico con il consenso del 73 per cento degli italiani.
L’ABISSO DEI PARTITI
Oggi, però, con circa dieci mesi di vita parlamentare davanti a sé, Draghi sembra essersi a sua volta impantanato. I partiti si sono ripresi dalla botta subita col crollo del governo Conte e hanno iniziato a mettere i bastoni tra le ruote.
Il primo è stato lo stesso capo del Movimento che, a torto o a ragione, ha contrastato con forza la proposta di Marta Cartabia sulla riforma della giustizia. Sono tornati poi all’attacco Matteo Salvini e Silvio Berlusconi che, con continue interferenze, hanno bloccato alcune riforme fondamentali.
La seconda mossa, così come la terza e la quarta, tanto per aumentare il caos, sono state quelle di affondare la riforma fiscale, la riforma del catasto e il disegno di legge sulla concorrenza per la riassegnazione delle concessioni balneari.
Ogni partito ha la propria corporazione di riferimento, che congela ogni possibilità di cambiamento. Come hanno fatto i tassisti bloccando Uber per anni, mentre era già diffuso in quasi tutti gli altri paesi del mondo.
Cgil e Uil si scontrano con il governo sul salario minimo, bandiera anche dei Cinque stelle. Tutto il centrodestra è contrario e, come al solito, si aspetta di sapere cosa ne pensa Matteo Renzi. Il salario minimo sarà possibile solo con un nuovo governo eletto dal popolo. Il Pd non va d’accordo con l’esecutivo sulla transizione ecologica, in particolare sulla possibilità di convertire tutta l’industria automobilistica all’elettrico.
Le difficoltà della politica interna spingono Draghi a essere inflessibile sulla politica estera. In Europa, continua per fortuna a essere un punto di riferimento grazie ai rapporti stretti soprattutto con Macron.
Come ha ricordato il direttore Stefano Feltri su questo giornale, il tempo guadagnato sta finendo. Se i partiti vogliono utilizzarlo per fare campagna elettorale, fatti loro. Draghi deve uscire alla svelta dalla situazione in cui si è incartato, forte del fatto che nessuno farà cadere il governo, in modo da recuperare lo smalto da Super Mario dei primi mesi di mandato. Per mostrare senza ombra di dubbio che il suo non è un vecchio governo democristiano in balìa delle correnti.