Un dietro-le-quinte davvero gustoso. Che, più di tante ricostruzioni storiche, racconta com’erano quei tempi, al di là dei resoconti ufficiali, e cos’era l’Urss nella fase in cui – dopo Praga – non era più la forza di riferimento indiscutibile agli occhi dei Pc europei. E soprattutto racconta come il più importante Partito comunista dell’Occidente sapeva destreggiarsi nei sempre più spinosi rapporti con il Cremlino.

ECCO L’EPISODIO: «Brežnev con un gesto di grande cortesia ci accompagnò nel suo ufficio con un tavolo occupato da una serie di telefoni, compreso il mitico rosso. Ci pregò di metterci a nostro agio, diede alcune indicazioni agli inservienti e ci lasciò soli. Con un’occhiata complice tra noi tre – io Pavolini e Berlinguer – con gli occhi fissi ai telefoni neri e la raccomandazione di Brežnev di farne uso se lo ritenevamo, pensammo fosse arrivato il momento di scoprire com’erano andate le partite della domenica che ancora non conoscevamo e che aveva tenuto in ansia soprattutto Pavolini, un laziale sfegatato. Finalmente nella stanza di Brežnev potevamo scatenarci. Pavolini mi dettò il numero di telefono dell’Unità e io chiesi di collegarsi. Il collegamento con Roma fu abbastanza rapido un po’ più lento quello dal centralino dell’Unità alla redazione sportiva. Quando finalmente ci connetterono passai la cornetta a Pavolini che chiese con una certa ansia il risultato della partita di domenica della Lazio. Il suo viso s’illuminò alla notizia che aveva vinto 2 a 0. Berlinguer chiese a quel punto che cosa avesse fatto il Cagliari e solo dopo un certo tempo Pavolini fu in grado di sussurrargli all’orecchio il risultato che a me non giunse ma che a giudicare dall’espressione del viso di Berlinguer pensai che dovesse essere stato pareggio né bene né male. Chiesi anch’io cosa avesse fatto la Spal e qui l’attesa fu ancora più lunga perché la mia squadra all’epoca era ancora in Serie C e quindi bisognava andare a cercare l’ultima pagina. Mi pare di ricordare si trattasse di un altro pareggio, forse con la Sanbenedettese. Non contento Pavolini aveva voluto sapere chi della Lazio aveva segnato e qui la ricerca fu più lunga prima che arrivassero mi pare i nomi di Chinaglia e Garlaschelli».

L’EPISODIO s’incornicia nel racconto, peraltro molto serio e puntuale, di una delicata missione a Mosca in un periodo in cui il Pci, da poco guidato da Enrico Berlinguer, aveva avviato con una certa determinazione la marcia di distanziamento dal Cremlino, resa inderogabile sia dalla ferita ancora aperta dell’invasione della Cecoslovacchia sia dalla crescita di peso del Pci nella dinamica politica italiana ed europea. La differenza tra il Pcus, a partire dal suo numero uno, Leonid Brežnev, e il Pci, a partire dal suo nuovo giovane segretario, Berlinguer, non è ormai solo politica. Si direbbe antropologica. E infatti, da allora, il rapporto Pcus-Pci si rivelerà sempre più conflittuale fino a diventare poco più che formale, in attesa, troppo tardi, dell’apparizione sulla scena di Gorbaciov.

Ma a rendere più godibile l’episodio è chi lo racconta: Antonio Rubbi. Rubbi è stato un dirigente nazionale del Partito comunista italiano e tra i massimi responsabili della sua politica internazionale. Per i cronisti che seguivano il Pci – i bottegologi – Rubbi era fin nell’aspetto l’emblema del rigore comunista nei confronti dei media: bocca cucita, parlano solo i comunicati ufficiali. Rubbi era però soprattutto il dirigente esemplare della specificità del Pci dei primi decenni, nel suo volere e sapere costruire quadri di spessore, selezionandoli, in molti casi, nella classe lavoratrice, fino a promuoverli ai massimi ruoli di responsabilità nazionale.

Ultimamente Rubbi ha scritto una serie di libri autobiografici che sono straordinariamente utili per capire come funzionava il Pci, la sua mitica organizzazione territoriale, con la capacità di catapultare un figlio di contadini del ferrarese, allora terra di indigenza ed emigrazione, fino ai piani alti di Botteghe oscure e a Montecitorio. Sono libri che «funzionano» perché scritti con autenticità e lucidità, da una penna che, all’apparenza, non sembrerebbe quella del Rubbi abbottonato all’uscita da Botteghe oscure. A ben vedere, però, i retroscena che svela non sono tali da cambiare quello che si sa del Pci e delle sue travagliate relazioni con Mosca, ma conferisce più autenticità a certe scelte che non erano solo strettamente politiche, ma vertevano sulla concezione della democrazia, inconciliabile tra i due partiti.

L’ULTIMO LIBROL’infinito Sessantotto (La Carmelina, pp. 466, euro 20) racconta con molti dettagli la vita interna del Pci, in uno dei suoi insediamenti più solidi, l’Emilia Romagna, e dà conto, a partire dell’esperienza personale del narratore, di che cosa era un «partito» di massa organizzato a livello nazionale. Basti dire che nella federazione di Ferrara si contavano 175 sezioni e 22 comitati comunali. Un presidio del territorio capillare. Oggi impensabile.