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14 Agosto 2023
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14 Agosto 2023
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Un mondo sommerso

di Giovanni Bianconi

 

Puntuale, d’estate torna l’emergenza carceri. L’anno scorso si registrò il record dei suicidi, 16 solo nel mese di agosto; quest’anno no, ma tre morti in due giorni (e due nello stesso istituto) riportano in primo piano una situazione di disagio straordinario che straordinario non è, poiché è strutturale. Le condizioni di vita dei detenuti (e degli agenti penitenziari) sono critiche sempre, anche quando non si verificano fatti eclatanti che le riportano d’attualità. Ma si tratta di un mondo sommerso, un po’ come quello dei migranti, che solitamente si preferisce ignorare. Nonostante la situazione sia sotto gli occhi di tutti.

«La stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale»; sono parole scritte dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nell’ottobre 2013, nel suo unico messaggio alle Camere durante i nove anni trascorsi al Quirinale.

«Le istituzioni e la nostra opinione pubblica non possono e non devono scivolare nell’insensibilità e nell’indifferenza convivendo, senza impegnarsi e riuscire a modificarla, con una realtà di degrado civile e di sofferenza umana come quella che subiscono decine di migliaia di uomini e donne reclusi negli istituti penitenziari», aggiunse il capo dello Stato, intervenuto all’indomani delle sanzioni annunciate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia, per i trattamenti inumani e degradanti inflitti ai detenuti attraverso il sovraffollamento delle carceri. Napolitano si spinse a sollecitare un’amnistia, ma al di là dei rimedi proposti poneva l’ineludibile questione di un «dovere costituzionale» da assolvere. Ribadito dal suo successore Sergio Mattarella in diverse occasioni; non ultima quando, nel discorso del secondo insediamento, ricordò che «dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti; questa è anche la migliore garanzia di sicurezza».

Dopo il messaggio di Napolitano non accadde nulla. L’Italia evitò ulteriori condanne grazie all’introduzione di meccanismi risarcitori nei confronti dei reclusi costretti a vivere al di sotto degli standard di decenza, il numero dei detenuti è un po’ sceso (allora erano circa 64.700 stipati in 47.600 posti), ma poi ha ripreso a salire. Oggi siamo a 57.800 presenze per 51.000 posti (in realtà quelli disponibili sono 3.000 in meno), ma in alcune prigioni il sovraffollamento raggiunge percentuali allarmanti. Laddove sovraffollamento significa riduzione di attenzione e servizi da parte di strutture in sofferenza, a partire dalle «guardie» che costituiscono il primo avamposto a sostegno dei reclusi ma sono anch’esse in difficoltà. E l’assistenza — a partire da quella sanitaria, e poi psicologica, culturale, lavorativa — costituisce la base della «rieducazione» prevista dalla Costituzione, che vuol dire reinserimento nella società lasciata al di là dalle sbarre.

Il Garante nazionale dei detenuti ricorda sempre che sono chiuse in cella migliaia di persone (almeno 6.000) che devono scontare pene o residui di pena inferiori a tre anni, e che dunque per legge avrebbero diritto a trascorrerli fuori dalle celle. Ma nella maggior parte dei casi non hanno un avvocato che presenti l’istanza, un posto dove scontare la detenzione domiciliare o qualcuno che offra un posto di lavoro. Sono reclusi «a perdere», nel senso che dovrebbero essere impegnati nell’ultimo tratto di un recupero che invece, spesso, non è neppure iniziato; e in queste condizioni, una volta fuori, è molto più alto il rischio che tornino a delinquere. Ci perdono loro e ci perde la sicurezza di tutti.

Ma affrontare questi problemi non porta voti né consenso, anzi c’è il diffuso timore che ne faccia perdere; per questo la politica è spesso sorda quando si parla di carcere. Nel 2018 il governo Gentiloni, su input di Matteo Renzi, all’epoca segretario del Pd, lasciò cadere gran parte del lavoro svolto per una riformulazione dell’ordinamento penitenziario, preoccupato dalle conseguenze elettorali. Che ci furono anche senza riforma carceraria, visto che nelle urne vinsero Lega e Cinque Stelle. Lo scorso anno, gran parte delle proposte di revisione del regolamento penitenziario avanzata da un’apposita commissione voluta dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia rimase sulla carta. Ora l’attuale Guardasigilli Carlo Nordio annuncia interventi per racimolare nuovi spazi detentivi, ma è da vedere se funzioneranno e quanto ci vorrà, in termini di tempo e soldi. Così come resta da vedere in che modo il governo uscirà dall’impasse in cui sembra caduto per la scelta del nuovo Garante, apparentemente improntata più a criteri di appartenenza politica che di competenze specifiche.

In ogni caso, per qualunque provvedimento c’è bisogno di un avallo da parte dei partiti della maggioranza, sempre difficile da ottenere su questa materia. Nel frattempo le agevolazioni introdotte a causa del Covid (come le telefonate in più rispetto ai dieci minuti settimanali previsti, o la possibilità di non rientrare la sera per chi usufruisce del lavoro esterno) se ne sono andate con la pandemia. Passi indietro immotivati che pesano sulla vita quotidiana in carcere, senza che nessuno — a parte i reclusi e i loro familiari — se ne sia preoccupato. Fingendo di non vedere o non sentire. Come di fronte alle parole di due presidenti della Repubblica.

 

https://www.corriere.it/

 

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Pierluigi Piccini
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