L’analisi che l’ambasciatore Bascone propone riguardo il “disastro ucraino” è molto acuta, frutto di grande conoscenza del quadro internazionale e, giustamente, motivata dalla volontà di richiamare “l’Occidente” (Stati Uniti ed Europa) a un realismo che consenta di mettere fine a una spirale bellica carica di rischi e di incognite.
Di fronte alla sua analisi, tuttavia, uno storico come chi scrive non può fare a meno di porsi alcune domande. Lo fa perché ha in mente quanto in parte – e, ripeto, solo in parte – le dinamiche odierne richiamino il patto di Monaco del 1938, quando l’Europa pensò di venire incontro alle aspirazioni di Hitler riguardo alla riconquista dei Sudeti nella convinzione, più o meno piena, che così il dittatore si sarebbe accontentato e placato almeno per un certo periodo di tempo.
Proverò a spiegarmi. Bascone parte riconoscendo, come è ovvio, che “l’aggressione iniziata il 24 febbraio 2022 è stata una scandalosa violazione del diritto internazionale”, ma giudica “innegabile” che “l’Occidente abbia costantemente alimentato a partire dall’inizio di questo secolo il desiderio di rivalsa della Russia, pesantemente umiliata da Bush senior nel 1990”. Sebbene non si debba dimenticare che omnis comparatio claudicat o che, come diceva James Bryce discutendo di riforme negli anni Ottanta dell’Ottocento, non c’è nulla di più fuorviante che un parallelo storico, non può non colpire che, come nel 1938, anche nel caso dell’Ucraina l’attaccante è un autocrate (se non vogliamo chiamarlo propriamente un dittatore) con un desiderio di rivalsa, come lo era Hitler per le umiliazioni ricevute dal suo Paese dopo la pace cartaginese del 1919. In entrambi i contesti, all’origine c’è la pretesa di salvaguardare popolazioni storicamente e culturalmente appartenenti alla sfera dell’aggressore: russofone nel caso odierno, germanofone nel 1938.
All’origine c’è la pretesa di salvaguardare popolazioni storicamente e culturalmente appartenenti alla sfera dell’aggressore: russofone nel caso odierno, germanofone nel 1938
Il problema che sorge in casi di questo tipo è la coincidenza o meno della radice culturale di una popolazione con la sua appartenenza istituzionale a uno Stato che si ritenga incarnazione di questa radice. Per lo storico si tratta sempre di elaborazioni culturali che riportano all’idea di “nazione” come fu proposta nell’Ottocento ed esasperata dalle correnti nazionaliste del Novecento: un approccio che è di difficile applicazione nel contesto dell’Europa orientale, dove la concentrazione geografica significativa delle “nazionalità” è difficilmente riscontrabile. Per questo sono state terre di “imperi”, cioè di sistemi multietnici senza capacità però di assimilazione, come sono stati quello asburgico e quello zarista, alla cui memoria Putin non manca di rifarsi ricordando che in fondo l’Urss l’aveva più che ereditata e fatta sua.
Ora, il primo problema che sorge è che quando si lancia una guerra sulla base del presupposto di riconquistare uno spazio imperiale, ritenuto non rinunciabile, ci si avvia su una china molto pericolosa. Gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra hanno cercato di farlo, e in buona parte ci sono riusciti almeno per un lungo tratto, col sistema che gli storici delle relazioni internazionali definiscono empire by invitation, cioè sulla base di un’attrazione che esercitava il combinarsi del loro sistema politico con quello socio-economico. La Russia di Putin ha provato a fare qualcosa di simile (con qualche spregiudicatezza in più, per dirla in modo gentile), ma quando ha visto che in Ucraina la promozione di un sistema di potere filorusso non ha funzionato è passata non a una generica “operazione militare speciale”, ma a una inaccettabile guerra di distruzione su larga scala con annessi crimini bellici.
Ora tutti sanno che questa scelta è stata sostenuta con una poderosa operazione cultural-demagogica diretta alla popolazione della Federazione Russa. Non si tratta di un particolare secondario. Come sempre nella storia quando un autocrate si fa prendere dal mito di essere uno che cambierà la faccia della storia, che ricostruirà una nuova umanità diversa dalla “corruzione” che attanaglia i suoi nemici, si è di fronte a un avversario che ha legato il proprio futuro alla realizzazione di una qualche forma di “Reich millenario”. Ci si può attendere che una figura di questo tipo possa essere ricondotta nei parametri di un uomo di governo con cui negoziare sulla base della composizione dei reciproci interessi?
Non è un interrogativo retorico, ma una domanda vera, per rispondere alla quale si dovrò cercare di analizzare le capacità di realismo e di razionalità politica di cui questa figura ha dato prova, ma anche del sistema di compartecipanti alla sua avventura che lo sostengono e che eventualmente possono avere interesse a contenerne le deviazioni.
L’allargamento a Est della Nato, arrivando ai confini della Federazione Russa, genera “un complesso di accerchiamento”
Il secondo tema che viene in mente leggendo l’analisi di Bascone riguarda la questione dell’allargamento a Est della Nato, arrivando ai confini della Federazione Russa e generando “un complesso di accerchiamento”. Si ricorderà che in un certo senso a ciò aveva alluso nelle prime fasi dell’aggressione russa all’Ucraina anche papa Francesco, parlando di un’alleanza atlantica che aveva “abbaiato” ai confini russi.
Che si sia verificato un fenomeno di questo tipo in parte è innegabile, in parte è discutibile. Infatti non si può fingere che alcuni Paesi confinanti con la Russia di Putin ricercassero coperture da parte occidentale: evidentemente tali Paesi temevano l’espansionismo di Mosca, memori anche di una storia che non risaliva a molti secoli fa. Che doveva fare l’Occidente di fronte alle minacce di revanchismo imperiale nell’Est europeo? Un suo rifiuto di essere presente in quelle aree avrebbe spinto quegli Stati a cedere alle manovre di loro riassorbimento nell’area che per comodità chiameremo zarista-sovietica.
Sappiamo che un tentativo di contenimento pacifico è stato la generosa accelerazione dell’inglobamento degli ex satelliti Urss nell’Unione europea, con costi per essa su cui in genere non si ama investigare. Questa strategia aveva però dei limiti geografici che non sembra alla fine possano reggere.
Oltre a questo va notato che è molto pericoloso accettare, come pretende di affermare il Cremlino, che la Nato sia una alleanza con scopo aggressivo nei confronti della Russia. Che ci siano delle ambiguità su questo piano è difficile da negare, ma a rigore dei trattati si tratta di una alleanza difensiva a tutela dell’indipendenza dei Paesi che ne fanno parte, considerati nel loro insieme come espressione di un modello politico-istituzionale (grosso modo: il costituzionalismo occidentale) che si vuole tutelare e preservare dalle alternative autoritarie e/o totalitarie. Nella attuale composizione della Nato qualche problema su questo modello esiste: pensiamo solo ai casi della Turchia e dell’Ungheria.
È dunque da controbattere la tesi che un Paese che fa parte della Nato se confina con la Russia costituisce per essa una minaccia: ammettendolo, si consente al revanchismo russo di organizzarsi per quello che, copiando il vecchio titolo di un libro sull’imperialismo tedesco alla vigilia della Prima guerra mondiale, potremmo chiamare l’assalto al potere mondiale, o meglio a quello occidentale, perché a oriente ci sono Cina e India ed è tutt’altra partita.
Ponendoci queste domande non vogliamo affatto che si arrivi a due conclusioni che sarebbero fuorvianti: che non ci siano stati errori, sottovalutazioni, anche mancanza di realismo nell’affrontare la questione ucraina; che non si debba cercare in tutti i modi di ricomporre un quadro negoziale che consenta di arrivare, come propone Bascone, “a una stabilizzazione dei rapporti piuttosto che a una esasperazione dei rancori”.
Vorremmo semplicemente invitare a riflettere su un tema che non ci pare secondario: come si possa giungere a questi risultati tenendo conto che ci si confronta con un autocrate che ha montato un’operazione di sfida alla storia quale si è andata sviluppando dopo la fine della Guerra fredda. Per vincere una partita del genere ci vogliono armi molto sofisticate non solo sul piano militare e diplomatico, ma su quello culturale. Ragionarci serve sempre.