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Il vertice in Alaska tra il presidente americano e Vladimir Putin non ha prodotto accordi ufficiali, ma ha sancito un cambio di equilibrio pericoloso. Trump ha abbandonato l’idea di un cessate il fuoco immediato, sposando la linea russa di un negoziato complessivo che prevede concessioni territoriali da parte dell’Ucraina. Più che leader occidentale, è apparso come interprete delle richieste del Cremlino, con un atteggiamento deferente che ha colpito persino più delle dichiarazioni ufficiali.
Per Putin il risultato è stato una vittoria diplomatica netta. Ha ottenuto visibilità internazionale, ha ribadito le sue condizioni senza fare passi indietro e si è mostrato sullo stesso piano di Washington. Trump, al contrario, ha liquidato l’incontro come “produttivo” senza portare a casa impegni concreti, scaricando di fatto il peso delle prossime mosse sulle spalle di Volodymyr Zelenskyy, atteso a Washington per negoziati sempre più in salita.
L’Europa, grande assente dal summit, ha cercato subito di compattarsi. Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Commissione Europea hanno riaffermato che l’integrità territoriale ucraina non può essere oggetto di trattativa e che ogni prospettiva di pace deve passare da garanzie solide e condivise. Ma la realtà è che senza una politica estera comune e senza una difesa unitaria l’Unione resta un colosso economico con un peso politico ridotto.
Il rischio è che il mondo scivoli verso un ordine dominato da leader autoritari: la Russia di Putin, la Cina di Xi e gli stessi Stati Uniti, se guidati da un presidente che preferisce equilibri personali alla difesa dei valori atlantici. Se l’Europa non saprà trasformarsi in una comunità politica capace di parlare con una voce sola, sarà destinata a restare ai margini. Per Trump, infatti, l’Ue è soprattutto un mercato da spremere; per Putin, un fronte da erodere; per Kiev, l’ultima speranza di non essere lasciata sola.