Massimo Cacciari
Potremmo anche considerare i primi atti della presidenza Trump un commendevole sforzo per liberare il campo da infingimenti e ipocrisie. Un politico che ritenga di poter trattare un popolo, quello palestinese, alla stregua di un gregge cui assegnare un pascolo, e che poi, per salvare la faccia, o per un residuo pudore, continui a finanziare Consigli per i diritti umani o Agenzie per il soccorso degli stessi palestinesi, cadrebbe in indecente contraddizione con sé stesso. La chiarezza è sempre preferibile alla confusione. Meglio un populismo quasi razzista esplicito che un umanitarismo d’accatto e sempre disposto a tradirsi. La crisi delle Nazioni Unite, la loro impotenza, la funzione meramente retorica dei loro organismi, come l’Unesco, sono evidenti agli occhi di tutti. Chi è contro la politica di Trump non dovrebbe difendere l’indifendibile, e cioè il loro attuale assetto, ma proporne linee radicali di riforma e per queste lottare. Trump ha dichiarato senza “tatto” diplomatico che qualsiasi organizzazione sovranazionale otterrà d’ora in poi l’appoggio del governo americano soltanto se obbedirà tassativamente alla sua linea di condotta. Che dicono i “democratici”? Quale Ordine internazionale intendono opporre a questo diktat? Pensano di potere o no rivendicare una propria autonomia?
Non è affatto domanda retorica. Può essere davvero che oggi una autonomia sul piano della politica globale da parte delle altre democrazie dell’Occidente sia nulla più che pia speranza. Il necessario realismo non deve però coprire il fatto che, se così fosse, ciò costituirebbe una brutta notizia anche per il Paese leader. La somma di tante debolezze non fa alcuna forza. Nel salto d’epoca che attraversiamo poter contare su alleati forti, propositivi sarebbe, credo, di qualche utilità anche per gli Stati Uniti. I toni superman di Trump neppure mascherano i segni evidenti di un reflusso dell’egemonia dell’Occidente americano, che sembrava destinata ad affermarsi irreversibilmente dopo la fine della Guerra fredda. Cosa esprimono quegli stessi attacchi alle Nazioni Unite, quell’insofferenza nei confronti di ogni discorso su “diritti umani”, ecologia, Stato sociale, se non il venir meno di ogni vocazione universale, il ritirarsi in una dimensione che sempre meno è in grado di ambire a un ruolo di guida? Nessun impero mai si è retto senza concepire la propria realtà come qualcosa che trascende gli interessi nazionali specifici, capace di informare di sé, dei propri valori, tutti i rapporti internazionali. Ideologie? Si chiamino pure così – ma nient’affatto qualcosa di superfluo o sovrastrutturale. È anche grazie a esse che gli Stati Uniti hanno stravinto la Guerra fredda.
Lo slogan “far grande di nuovo l’America” assume un timbro sempre più difensivo. L’arma protezionistica è a doppio taglio. Gli Stati Uniti, come ben noto, sono in rosso per centinaia di miliardi nello scambio di beni con Cina, Unione europea, e anche con Messico e Canadà. Usata drasticamente quell’arma potrebbe avere conseguenze deleterie per l’economia americana. Gli stessi elettori di Trump lo avvertono e corrono a fare provviste di merci non deteriorabili di largo consumo. Nel frattempo il debito pubblico USA continua a aumentare (oltre il 6% del Pil ogni anno) e il risparmio delle famiglie a ridursi in proporzione anche maggiore. La storia insegna che una potenza che mantiene saldamente la propria egemonia militare e tecnologica può affrontare simili problemi e, almeno in parte, contare sulla debole reazione dei suoi alleati.
Ma proprio qui si profila la questione strategica per l’America e di conseguenza per l’intero Occidente. Il gap a suo favore sul piano del fondamentale sistema economico-tecnologico-militare sembra di giorno in giorno ridursi. Di certo il suo monopolio non è più così assicurato come all’inizio della “grande trasformazione” iniziata con gli anni ’80. Il confronto epocale con la Cina – e le altre economie in prepotente crescita dell’Est – soltanto agli inizi, e non potrà essere condotto semplicemente a colpi di dazi e anacronistici protezionismi. La realtà è che le politiche à la Trump e quelle delle destre europee che lo sostengono segnano non una rinascita dell’Occidente, ma, al più, una linea di mero contenimento delle cause del declino della sua potenza.
Proprio gli Stati europei (l’Europa è ahimè ancora questa, quella degli Stati e dei loro faticosi accordi) avrebbero il dovere di comprenderlo e farlo comprendere. Lavorare affinché la competizione economico-tecnologica non si trasformi in inimicizia politica; rafforzare gli organismi internazionali che a questo scopo sono nati e che per non averlo saputo adempiere stanno fallendo; rilanciare la discussione al loro interno sui principi di un nuovo Ordine della Terra (e dello spazio che l’abbraccia!). Quali principi? Ma non si chiacchiera delle nostre radici cristiane e illuministe?! Vogliamo prenderle sul serio? Proviamo a pensare allora a un’economia che produce essenzialmente per il benessere, il welfare dei cittadini. Proviamo a pensare a relazioni internazionali che escludono la guerra come mezzo di soluzione delle controversie tra Stati. E allora diciamo con Kant che il debito pubblico serve solo per opere di pubblica utilità e non per armamenti. Diciamo che nessun Stato può intromettersi con la forza negli affari di un altro per cambiarne la costituzione. L’Europa non lo afferma né lo pratica? E allora è un’Europa sradicata, non più tale, soltanto un nome, inutile, anche per gli Stati Uniti.