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Pieni poteri Meloni è stanca del contraltare del Capo dello Stato. Che svolge esattamente la funzione che gli assegna la Costituzione
«Coabitare stanca», scrivemmo quando la convivenza istituzionale tra un presidente della Repubblica che ha i piedi ben saldi nella Costituzione e una presidente del Consiglio che viene da un’altra storia, opposta, era agli inizi. Passati anni e mesi, è chiaro che a essere più stanca e a perdere frequentemente la pazienza è ormai Giorgia Meloni.
Escludiamo che l’attacco al Quirinale sia il frutto di un pensiero di Galeazzo Bignami e che questo pensiero sia stato autonomo. Due cose evidentemente non possibili. Il comunicato con cui si è voluto dar credito e rilanciare un servizio della Verità, inequivocabile già dal titolo – «Il piano del Quirinale per fermare la Meloni» – aveva il visto della presidente del Consiglio. Non a caso era firmato dal capogruppo del «partito di maggioranza relativa», come il Colle non ha mancato di far notare, segnalando di aver mangiato la foglia. Certo, quel capogruppo è pur sempre Bignami, cioè un soldato del melonismo, indossi o meno la nota divisa, arguto come quando mesi fa attaccò noi del manifesto perché avevamo dato una notizia a lui sgradita. Questa è la qualità media del gruppo dirigente di Fratelli d’Italia, per cui si dà seguito agli ordini come si può e come si sa fare. Ma gli ordini arrivano sempre dall’alto.
Meloni è stanca del contraltare del Capo dello Stato. Che svolge esattamente la funzione che gli assegna la Costituzione: non rappresenta la maggioranza pro tempore ma l’unità nazionale, non accompagna e agevola il funzionamento del governo ma della Repubblica nel suo complesso. Quando il governo e la sua capa vanno all’assalto dei poteri di garanzia, il presidente non può che segnalare la sua contrarietà, con gesti e con parole. Se gli interventi del presidente si moltiplicano è perché questi assalti si fanno più frequenti. E non raramente calpestano le più elementari regole del parlamentarismo, dunque Mattarella ammonisce e segnala anche quando firma comunque leggi e decreti assai discutibili.
Si può condividere fino in fondo o anche no questo stile del presidente, di certo non lo si può dipingere come uno sleale avversario. A meno di non innamorarsi della propria propaganda e vedere nemici ovunque, sentirsi sempre accerchiati.
Certo, Mattarella per cultura politica è lontano assai dai governanti. Richiama alla necessità del dialogo quando a palazzo Chigi si impone il monologo, non di rado autoritario. Tre giorni fa a Berlino ha fatto l’elogio della cooperazione e del multilateralismo, evocando istituzioni internazionali con le quali il nostro governo fa a cazzotti (come la Corte penale internazionale), mentre Meloni è schierata con il brutalismo di Trump (evidentemente uno dei «dottor Stranamore» criticati dal presidente). E lunedì sera le conclusioni alle quali il Quirinale ha portato il Consiglio supremo di difesa, continuare con il sostegno all’Ucraina, evidentemente sono risultate troppo nette per Meloni che ha il problema di gestire Salvini – non tanto come ministro e alleato, perché si adegua sempre, ma come meme da campagna elettorale permanente.
L’affondo della destra contro il Quirinale adesso è più sfacciato, ma non è il primo. Ha approvato in prima lettura e Meloni ancora ieri esaltava una riforma costituzionale che svuota il ruolo del Capo dello Stato. Il presidente del senato la Russa, cioè la terza carica, quella che tradizionalmente mantiene la sintonia con il Quirinale, ha detto in chiaro che l’obiettivo della riforma è precisamente quello di ridimensionare l’arbitro e garante della Costituzione che sta sul Colle. Non solo, più recentemente ha spiegato che siccome il premierato potrebbe non riuscirgli, la maggioranza otterrà lo stesso risultato con la riforma elettorale che è più facile. Grazie al trucco dell’indicazione del premier sulla scheda, probabilmente incostituzionale, sicuramente in contrasto con le prerogative del presidente della Repubblica. Il tutto mentre Mattarella, ricordiamolo, ha un mandato che scade quasi due anni dopo la data in cui presumibilmente si tornerà a votare per le politiche.
Dunque quello di ieri non è un incidente. Se non nella forma sgraziata che ha saputo dargli il deputato soldatino e che, solo la forma, ha costretto a una tiepida correzione palazzo Chigi. Non direttamente Meloni, muta come restano sempre muti i mandanti. Ma gli esecutori talvolta eccedono perché hanno comunque un piccolo margine di manovra e, come ha strillato orgoglioso Bignami in parlamento, sono «capaci di ragionare con la propria testa». Il che probabilmente è parte del problema.





