Il Punto 10/10/2023
11 Ottobre 2023Il corpo delle donne nella narrazione dei carnefici
11 Ottobre 2023L’addio Il grande inviato del «Corriere della Sera» aveva 91 anni. I suoi reportage sono lezioni di coraggio e moralità. Ettore fu spericolato già prima dei viaggi, affrontati con umanità e ironia
di Gian Antonio Stella
«Si aspettavano Indiana Jones e si trovavano davanti questa specie di folletto…». Quando racconta degli incontri che papà faceva in giro per le scuole, a Damiano tornano in mente mattinate indimenticabili perché «spinti dai docenti i ragazzi si erano letti i libri sui suoi reportage in giro per il mondo e tutto immaginavano tranne che l’avventuroso protagonista di quelle storie straordinarie fosse un ometto dagli occhi ridenti».
Così era Ettore Mo, che se n’è andato lunedì, a 91 anni, lasciando un vuoto non solo nella sua famiglia, la moglie Christine («La Penelope ideale di un Ulisse spericolato», come scrisse Elisabetta Rosaspina), i figli Deborah, Daniela e Damiano ma in tutti coloro che avevano riconosciuto in lui un fuoriclasse del giornalismo a cavallo con la letteratura («Tu sei l’Hemingway italiano», lo vezzeggiava Fernanda Pivano che del grande romanziere americano fu traduttrice e amica) e una persona di una tale statura morale da poter sorridere del suo essere brevilineo fino a giocarci con irresistibile autoironia. Come quando, isolato per settimane dalla neve e dal gelo sulle montagne afghane senza poter manco comunicare di essere vivo, ricomparve con uno dei suoi pezzi memorabili e una battuta che faceva il verso a un aperitivo allora di moda: «Cercavate il nano ghiacciato?».
Figlio di Guglielmo, un falegname che veniva da Colma di Valduggia, in Valsesia, e che si era impuntato con mille sacrifici a far studiare il figlio al liceo classico, prendere lezioni di musica («Da ragazzo, il mio sogno era diventare cantante d’opera») e iscriversi infine alla Ca’ Foscari di Venezia, Ettore Mo non ebbe subito chiaro il percorso che voleva seguire nella vita tranne l’obiettivo: «Volevo vedere, conoscere, scrivere. Insomma, volevo fare il Conrad». Obiettivo perseguito facendo di tutto per mantenersi: l’istitutore in un collegio di ciechi a Padova («Ricordo furibonde partite di calcio nel cortile di cemento dove al posto del pallone c’era una latta»), lo sguattero sull’isola di Jersey nella Manica, il cameriere a Parigi, il bibliotecario ad Amburgo, il maestro di francese per i bimbi del collegio «Nuestra Señora de las Maravillas » a Madrid, il cantante «napoletano» a Piteå nell’estremo Nord svedese, l’infermiere in un ospedale per incurabili a Londra fino a imbarcarsi come steward sulla nave «Orsova», che sulla rotta Londra-Gibilterra-Napoli-Suez-Ceylon-Australia-Nuova Caledonia-Hong Kong-Giappone-Hawaii-Los Angeles-Panama e ritorno portava in crociera annoiati ricconi. Una scelta di vita per vedere il mondo finché un giorno scrisse a Piero Ottone, allora vice-corrispondente a Londra, chiedendogli se poteva mandargli qualche pezzo dai luoghi che visitava.
Roba buona, stando alla risposta arrivata mesi dopo dal futuro direttore del «Corriere della Sera»: «Egregio sig. Mo, ho letto i racconti di viaggio che lei mi ha mandato. Lei sa tenere la penna in mano e credo sia persona atta a fare il giornalista». «Atta!» Ne avrebbe sorriso per anni, il grande Ettorino. Qualche settimana dopo, smaltita una sbornia epocale sulla panca di un commissariato londinese sotto la sorveglianza di un poliziotto destinato a diventare un grande amico, entrava al «Corriere». Abusivo. Per anni. Ma pieno di sogni e di amore: «Mi conquistò la sera in un pub», ricorda Christine, «quando a un certo punto cominciò a citare i versi della Carmen di Bizet: “Il fior che avevi a me tu dato’’. Era un ragazzo davvero speciale». Anni duri, però. Prima a Londra e poi a Roma («Feci il viaggio col cuore a pezzi e la testa girata a guardare indietro») per fare il praticantato in uno sgabuzzino del «Messaggero» dove montava la guardia, pensa un po’, a un accordo fra i due giornali di non rifilarsi scoop. Cinque anni di limbo, senza scrivere una riga: «Cinque anni di gogna, di morte civile, di cloaca». Un giorno chiese a Giovanni Spadolini, il direttore, di passare a Milano: «Dissi: potrei tradurre delle didascalie agli Esteri… E lui: “Caro Mo, un po’ di umiltà!”».
Ma ce la fece infine, a passare a Milano. Prima alla cronaca giudiziaria («Non distinguevo un pretore da un ghisa»), poi agli spettacoli. Dove riuscì a conquistarsi non solo la stima ma l’amicizia se non la devozione di artisti come Rudolf Nureyev, Luciano Pavarotti, Dario Fo con il quale duettò in un siparietto irripetibile: «Ciao Fo», «Ciao Mo». Finché un bel giorno, nell’estate 1978, il direttore Franco Di Bella lo beccò che gironzolava per i corridoi: «Ce l’hai qui il passaporto? Devi partire per il Libano». Rispose: «Sicuro?». «Io butto nell’acqua solo chi so che sa nuotare».
E sapeva sì nuotare, quel formidabile figlio del falegname che avrebbe regalato al padre anni d’orgoglio («Il nonno girava col “Corriere” in tasca e quando c’erano i necrologi collettivi mostrava a tutti la lista alla lettera M: eccolo qua mio figlio, subito prima di Montale») e ai lettori del «Corriere» reportage magnifici. La serie sui grandi fiumi e le guerre per l’acqua… L’Iran travolto dagli ayatollah di Khomeini… Il massacro nel campo profughi libanese di Sabra e Shatila… I viaggi a piedi tra i monti dell’Afghanistan («Da ogni fronte di guerra papà mi portava sempre una bambola, da lì ne arrivò una col burqa», ricorda Daniela) occupato dai russi e l’amicizia col Leone del Panshir, il comandante Ahmad Massoud che citava Dante Alighieri e Victor Hugo… Il racconto, con le foto dell’amico di sempre Luigi Baldelli, sulla feroce sfida proibita sulle Ande tra un toro che rappresentava la Spagna e il condor degli indios che gli era inchiodato in groppa, col parroco italiano che cavalcava un cavallo «lento e solenne» chiamato Napoleone e mandava a tutto volume campane e Vivaldi…
Un mito. Che si sforzava a ogni passo, come spiegò un giorno a Milena Gabanelli in Cecenia, di stare alla larga dall’effetto speciale: «Quando racconti un fatto devi scegliere le parole con una purezza incredibile. Io parlo di castità verbale. Se fosse possibile. Io stesso mi sono reso conto dopo tanti servizi che non è possibile. Un racconto senza aggettivi. Non ci sono riuscito. Non c’è mai riuscito nessuno». Certo lui ci provò. Sempre: «Mi sono liberato da anni dell’ossessione di fare un “bel” pezzo. Mi interessa solo raccontare quello che ho visto nel modo più chiaro, asciutto e comprensibile che posso. Se poi, di getto, mi viene la “zampata”, meglio: ma non la cerco mai».
Raccontò per anni sul «Corriere» e nei libri anche di stragi orrende, bambine suicide perché non sopportavano più la guerra, eserciti di mutilati dalle mine antiuomo e sangue, sangue, sangue… Quando tornava a casa, però, ad Arona, sul Lago Maggiore, cercava di alleggerire tutto giocando ancora sulla sua statura: «Tranquilli, dove vado sparano ad altezza d’uomo».
Ciao, gigante.