
Xenos, il Natale e l’illusione di una crescita che non c’è
16 Novembre 2025di Pierluigi Piccini
Leggendo l’intervista rilasciata da Marco Bellocchio a Vanity Fair, mi ha colpito la trasparenza con cui descrive il nostro tempo: “Apri il telegiornale e vedi stragi di qua, stragi di là, la guerra che ricomincia, tutti che si armano… questo sì, mi deprime”. Non c’è enfasi, non c’è retorica. Semplicemente constata ciò che vede. E in questo suo modo di guardare il mondo senza schermi sento una risonanza profonda: quella stessa percezione di un tempo che si sgretola, che non offre più orientamento né tregua.
Bellocchio poi sposta lo sguardo nel privato: la figlia che aspetta un bambino, la stabilità che viene dal lavoro, anche dalle critiche che obbligano a ripensarsi. Non è ottimismo, è un equilibrio minimo che permette di resistere al rumore del mondo. Lo capisco bene: a volte è proprio la continuità del fare a impedire che la consapevolezza del resto – troppo larga, troppo oscura – prenda il sopravvento.
Il passaggio decisivo dell’intervista arriva però quando gli chiedono dell’aldilà. E lui risponde con una sincerità che spiazza: “Non riesco a immaginarlo… Vivo con quello che ho.”
È una frase piccola, ma che apre uno spazio enorme.
Per Bellocchio sembra essere un approdo, un modo sobrio e concreto di stare nel presente senza costruire illusioni.
Per me, invece, quella frase significa qualcosa di più instabile, più esposto.
Non perché non ne condivida il senso, ma perché so che ciò che mi accompagna non è la semplice paura. È l’angoscia — quella che non ha volto, che non indica un pericolo preciso, ma che apre il nulla sotto i piedi. Non è un sentimento che si può mettere a distanza con un atto di volontà: è una condizione. È il modo in cui il mondo mi si dà, e non sempre c’è un appiglio.
Per questo, quando ripeto a me stesso “vivo con quello che ho”, so che non sto affermando una sicurezza. Sto cercando una tregua. Non una soluzione, ma una sospensione. Una forma di equilibrio precario che mi permette di non farmi travolgere dall’eccesso di consapevolezza. È un gesto che ha molto a che fare con Heidegger — non come citazione colta, ma come presenza reale nella mia vita.
Heidegger non mi ha rovinato la vita: mi ha dato il linguaggio per nominare ciò che già ero. In lui ho trovato il terreno che cercavo, perché coincideva con il mio: l’angoscia come apertura al mondo, la finitezza come condizione originaria, la consapevolezza del limite come punto di verità e non di fuga. Leggerlo non ha creato la mia inquietudine; l’ha illuminata.
Per questo il “vivo con quello che ho” di Bellocchio, per me, non è un approdo. È un passaggio.
Una formula che non elimina l’angoscia, ma la tiene a distanza quel tanto che basta per continuare.
Non so quanto durerà questa tregua, né se potrà mai diventare una stabilità. Ma so che, almeno ora, mi permette di avanzare: di lavorare, di pensare, di restare nel reale senza esserne annientato.
Bellocchio trova in quella frase una pace discreta.
Io ci trovo un modo per non arretrare.
Per vivere, appunto, con quello che c’è — anche quando non basta, anche quando tutto vibra sotto il peso dell’angoscia.





