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2 Agosto 2025Zagrebelsky e Cassese a confronto: il ruolo dei giudici nella valutazione dei Paesi sicuri
Zagrebelsky:
Quando si tratta di decidere se un migrante debba essere rimandato nel proprio Paese, è in gioco molto più di una questione amministrativa: c’è in gioco la protezione dei diritti fondamentali. Per questo la designazione dei “Paesi sicuri” non può essere sottratta al vaglio dei giudici. L’ordinamento europeo, a cui l’Italia ha liberamente aderito, prevede il primato del diritto dell’Unione: se una norma nazionale entra in contrasto con i principi europei, i giudici devono poterla disapplicare.
Cassese:
Ma questo è proprio il problema. I giudici non sono legislatori e, soprattutto, non sono organismi dotati delle competenze necessarie per stabilire in modo attendibile se uno Stato straniero sia sicuro o meno. La direttiva europea stessa prevede che la valutazione sia fatta a livello nazionale, non dal singolo magistrato. Se ogni tribunale decidesse in modo diverso, si creerebbe un sistema disordinato e imprevedibile.
Zagrebelsky:
L’esigenza di uniformità non può valere più del diritto alla protezione individuale. La legge deve lasciare spazio all’eccezione, perché ogni persona porta con sé una storia diversa. Se un individuo ha motivi credibili per temere di tornare nel proprio Paese, è giusto che un giudice possa valutarlo, anche se quel Paese è stato inserito in una lista di Stati “sicuri”.
Cassese:
Ma così si svuota di significato la categoria stessa di “Paese sicuro”, che serve proprio a distinguere rapidamente chi ha reali motivi per chiedere asilo da chi probabilmente non li ha. Senza questa distinzione preliminare, si rischia di paralizzare il sistema e incentivare abusi. Inoltre, è molto pericoloso che una norma nazionale possa essere sospesa senza passare da un controllo costituzionale centralizzato.
Zagrebelsky:
La disapplicazione di norme contrarie al diritto dell’Unione è un obbligo, non una forzatura. Se si vogliono evitare contraddizioni, si lavori su un sistema europeo comune che garantisca trasparenza nella formazione delle liste dei Paesi sicuri e che consenta un reale controllo giurisdizionale. I giudici non chiedono di fare politica, chiedono solo di poter garantire giustizia.
Cassese:
Ma questo controllo diffuso porta a una frammentazione che mina l’intero impianto europeo. Se ogni giudice nazionale può contraddire una decisione politica centrale, l’Unione diventa una somma di interpretazioni individuali. È un paradosso: nel tentativo di tutelare i diritti, si rischia di distruggere la coerenza del diritto.
Conclusione
Il confronto tra Gustavo Zagrebelsky e Sabino Cassese mette in luce due concezioni diverse del rapporto tra diritto e potere: una fondata sulla centralità del controllo giudiziario e sull’effettività delle tutele individuali; l’altra preoccupata per la coerenza dell’ordinamento e il rischio di anarchia interpretativa.
Zagrebelsky difende un modello in cui il giudice è garante dei diritti, anche contro il legislatore, quando le norme interne si pongono in contrasto con i valori europei.
Cassese, al contrario, vede nel moltiplicarsi delle valutazioni giudiziarie un vulnus all’autorità del diritto comune, e denuncia il pericolo di trasformare l’Unione in una babele giuridica.
Entrambe le posizioni sono fondate. Ma alla luce del principio di non respingimento e delle responsabilità storiche dell’Europa, appare più plausibile la visione di Zagrebelsky: la giustizia deve restare accessibile anche nei casi più difficili e non può ridursi a un automatismo burocratico. La sfida, oggi, è costruire una governance europea che unisca efficienza e garanzie, evitando sia l’arbitrio politico che la frammentazione giurisdizionale.