La lettera più bella che Roberto Longhi abbia scritto a Federico Zeri è datata 12 agosto 1946, e riguarda il terreno impervio che divide i dipinti e le parole: «bisogna cercare che l’avventura interlocutoria tra noi e l’opera sia più stretta, più accostante che si può», poiché «un’osservazione sentita, penetrante, comprensiva (…) continuerà a vivere accanto all’opera; che dico, fusa con l’opera stessa». A quella data Longhi era professore a Bologna, e per la storia dell’arte già non aveva bisogno di presentazioni. Zeri si era laureato con Pietro Toesca, era appena entrato nei ranghi della Soprintendenza alle Gallerie di Roma, aveva venticinque anni ed era voracemente appassionato di pittura antica. Si erano conosciuti pochi mesi prima in casa Briganti, dove Longhi aveva ritardato le presentazioni fingendosi ‘il signor Saibene’.

Uno scherzo, probabilmente, ma forse anche un modo per evitare timori reverenziali, per studiare meglio quello che già al primo incontro gli dovette sembrare uno storico dell’arte molto più che promettente. E se non allora, fu subito dopo, quando alla fine della primavera cominciò quel prodigioso scambio di lettere tra Firenze e Roma che sarebbe durato quasi vent’anni, e che ora possiamo leggere nell’imponente edizione curata da Mauro Natale: Federico Zeri, Roberto Longhi, Lettere (1946-1965), Silvana Editoriale (pp. 614, € 32,00). Un volume che gli allievi degli allievi di Longhi hanno atteso come si attendono dei documenti desecretati. Un volume che non sarebbe stato possibile senza la generosità di Eugenio Malgeri Zeri e la collaborazione delle fondazioni che portano i nomi dei due corrispondenti: Longhi a Firenze, Zeri a Bologna.

Con l’entusiasmo di chi sente di aver trovato il proprio maestro, Zeri cominciò a riversare nelle lettere tutte le sue scoperte: i quadri di galleria di cui aveva trovato l’autore, le pale d’altare rinvenute nei borghi più inaccessibili del Lazio, i frammenti di polittico scovati in casa dei collezionisti, le personalità artistiche dimenticate dal tempo – altissime, ma senza nome.

Come quando da una chiesa romana tornò alla luce – nascosta dietro una pala d’altare – una fragorosa tavola del Quattrocento: «Non le dico che roba! Rappresenta un San Bernardino in piedi, vestito di un grigio con riflessi rosei (…) Il viso è di una potenza di espressione che c’è solo in Cossa e in Ercole (…) Chi è? (…) Il colore è alla Piero della Francesca – Bartolomeo della Gatta, con riflessi delle Marche (…) Che sia uno spagnolo, ma uno spagnolo eccezionale? Le dico, è un quadro indimenticabile. Ma di chi sia è un mistero» – qualche anno dopo Ferdinando Bologna trovò una quadra per tutte queste componenti di cultura figurativa attribuendo il dipinto al suo Maestro di San Giovanni da Capestrano, abruzzese forse identificabile con Giovanni di Bartolomeo dall’Aquila, documentato a Napoli verso metà Quattrocento.

Leggere brani come quello appena citato – il carteggio ne è stracolmo – è come entrare nella sala macchine degli studi. Ci ricordano che anche per i grandi conoscitori l’attribuzione non è una rivelazione mistica, ma un metodo, ed è tanto più ricca di significato quanto più procede per approssimazioni geografiche, per accostamenti ipotetici, per errori rivelatori. Su questo binario il giovane Zeri si muove ‘a tutto vapore’, accumulando per strada migliaia di fotografie. Vuole «conoscere la pittura italiana fin dove è umanamente possibile». Per tenere testa al vero e proprio fuoco di fila dei dipinti citati nel carteggio, il lettore potrà contare su un abbondante apparato illustrativo, ma ancor più sul rimando in nota alle schede online della Fototeca Zeri.

Presto il professore comincia a pubblicare le migliori scoperte del suo ‘quasi allievo’ (la definizione è di Longhi). A parte le difficoltà di scrittura a cui si è accennato in apertura, nel complesso sono pochi i casi in cui il maestro solleva dubbi sulle proposte di Zeri. Dieci anni più tardi gli articoli su «Paragone» sono undici solo per il 1958 (di questo ritmo ci si renderà meglio conto fra poco, quando uscirà a stampa la bibliografia dello studioso curata e commentata da Elisabetta Sambo).

Longhi aveva trovato anche una sorta di agente romano. Le lettere svelano che Zeri fece di tutto per convincere la principessa Elvina Pallavicini a concedere il suo Velázquez alla leggendaria mostra longhiana su Caravaggio a Milano nel 1951. E nel settembre di quell’anno non aspettò un minuto per avvisare che all’Ufficio Esportazioni di Roma era stato appena bloccato un San Giovanni Battista caravaggesco intriso di «una tristezza senza speranza che trabocca da ogni minima particella della tela». Il dipinto – poi attribuito allo Spadarino – fu esposto alla Galleria Corsini per qualche anno, ma poi lo Stato non riuscì a perfezionarne l’acquisto. Il caso dovette contribuire alla delusione di Zeri nei confronti dall’amministrazione pubblica, un sentimento di cui il carteggio rende ampiamente conto.

Accanto al fiume in piena della connoisseurship, infatti, nelle lettere scorre la cronaca romana della Soprintendenza e del Ministero. Zeri si scaglia quotidianamente contro la Direzione Generale Antichità e Belle Arti, ma soprattutto contro l’Istituto Centrale del Restauro. Qui le ragioni della tutela delle opere d’arte e le animosità personali sono a volte inestricabili (in cima alla lista nera ci sono Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan). Zeri cerca un alleato, minacciando di scoperchiare sui giornali scandali e inefficienze: «Lei pensa che una serie di articoli servirebbe a qualcosa? Io credo che sarebbe opportuno farne “a catena”, d’accordo l’uno con l’altro». Longhi ascolta, condivide, agisce, ma cerca anche di contenere: «in sede polemica, tu sei troppo orgiastico…». Resta il fatto che chi abbia familiarità con gli articoli di giornale scritti da Zeri tra anni ottanta e novanta troverà qui le radici di molte battaglie per la salvaguardia del patrimonio. Al netto degli antagonismi, le lettere permettono di seguire dietro le quinte alcune vicende fondamentali. Come per l’acquisto di Palazzo Barberini, avviato dallo Stato nel 1949 dopo molti passi falsi. Qui Zeri giocò un ruolo di primo piano, deciso a garantire alla capitale una Galleria Nazionale a tutto campo, dove il racconto della pittura fosse il più possibile completo (negli stessi anni, a Milano, riapriva dopo la guerra la Pinacoteca di Brera). La ricchezza di questo versante para-istituzionale farà del carteggio Zeri-Longhi uno strumento di consultazione da tenere a portata di mano per chi vorrà studiare la storia della tutela, dei musei e del restauro nell’Italia del secondo dopoguerra. Ed è su questo fronte – ancor più che per le storie attributive – che il fittissimo apparato di note montato da Mauro Natale e da Elisabetta Silvello si rivela estremamente prezioso.

Verso la metà degli anni cinquanta le cose si complicano, e il carteggio ne risente. Zeri si dimette dall’amministrazione, ma allo stesso tempo non riesce a farsi strada nel campo minato delle cattedre universitarie. Su questo fronte il sostegno di Longhi era stato – nel migliore dei casi – intermittente. Più Zeri si conquista un’autonomia professionale e più i modi si fanno formali, lo smalto della condivisione appassionata si consuma (sullo sfondo ci sono anche i corridoi del mercato dell’arte, sempre troppo stretti). Nel frattempo è cominciato per Zeri il tempo dei viaggi in America, coronato dall’incarico per il catalogo dei dipinti del Metropolitan Museum di New York e dai corsi a Harvard. Lo scambio a distanza diventa allora l’occasione per fare sfoggio di quel profilo internazionale che a Longhi mancava. E non è quindi un caso che la rottura definitiva con l’ormai ‘quasi maestro’ avvenga con una lettera del 1962 spedita dai Caraibi (il tono è già quello tipicamente sornione e dissacrante dei decenni successivi): «Le scrivo dal posto più inverosimile e più incantevole del mondo (…) qui ci si sente trascinati da una girandola pazzesca (…) La situazione italiana (anche quella storico-artistica) vista da questa distanza assume nuove prospettive, più precise proporzioni, e rapporti meno mitici».