ROMA — L’affondo sulla «madre di tutte le riforme» arriva — a freddo — in un umido pomeriggio fiorentino. Gianni Letta deve ritirare il premio “Progetto città” dalle mani di Andrea Ceccherini e si intrattiene amabilmente con duecento ragazzi venuti ad ascoltarlo. L’occasione giusta per mandare un messaggio di quelli che nessuno, a cominciare da Giorgia Meloni, potrà concedersi il lusso di ignorare.
Il premierato, spiega l’ex sottosegretario di Palazzo Chigi, «fatalmente » ridurrebbe i poteri del presidente della Repubblica «perché la forza che ti deriva dalla investitura popolare è certamente maggiore di quella che deriva dal Parlamento. Non sta scritto nel testo del Ddl — precisa Letta — ma è ovvio che poi nella dialettica chi è investito dagli elettori ha più forza». Un deciso stop all’elezione diretta del capo del governo, principio-cardine della legge imposta dal vertice di FdI, che ha il sapore dell’epitaffio. «Secondo me — insiste lo storico braccio destro di SilvioBerlusconi — la figura del presidente della Repubblica così com’è disegnata, e l’interpretazione così come è stata data dai singoli presidenti nel rispetto della Costituzione, come tutti i costituzionalisti oggi riconoscono, sta bene così: non l’attenuerei, non la ridisegnerei, non toglierei nessuna delle prerogative così come attualmente sono state esercitate ». Anche perché «oggi abbiamo un presidente felicemente regnante nel suo secondo mandato, che lo esercita in maniera splendida e ha fatto tanto bene a questo Paese ». Chiaro il sottotesto: se dovesse essere ridotto a un semplice tagliatore di nastri o poco più, Sergio Mattarella non è detto che resterebbe al suo posto. Con inevitabile corollario: «Prima c’era il rispetto delle istituzioni, se non il culto; oggi si va perdendo il senso dello Stato», sentenzia Letta.
Una bocciatura che alla presidente del Consiglio in missione a Dubai fa l’effetto di un pugno nello stomaco. Quando i collaboratori le mostrano le agenzie, Meloni si fa scura in volto e chiama immediatamente Antonio Tajani: vuole sapere cosa sta succedendo, il perché di questo attacco. A che gioco sta giocando l’alleato? Il vicepremier e segretario azzurro cade dalle nuvole. L’uscita non era concordata. Non ne sapeva nulla e si dice pronto a rimediare. Con un post su X, per accorciare i tempi, in cui ribadire innanzitutto che «Forza Italia sostiene convintamente la riforma sul premierato». Per poi aggiungere, a riprova che si tratti di un incidente che lo mette in grave difficoltà, come non vadano«interpretate in direzione contraria alcune frasi di Gianni Letta. Mi ha confermato che le sue parole si riferivano a valutazioni teoriche e non a giudizi sulla riforma». Un inedito assoluto, la precisazione di Tajani: mai era accaduto — fanno notare allarmati in casa azzurra — che qualcuno intervenisse per chiarire il senso del discorso dell’uomo che ha affiancato il Cavaliere in tutta la sua parabola, politica ed esistenziale.
E infatti Meloni non si placa. Sa bene che l’ex grand commis al servizio perenne delle istituzioni non parla mai a caso. E quando lo fa, cosa più unica che rara, non è mai a titolo personale. Bensì in nome e per conto di una serie di mondi — i grandi poteri dello Stato, che in lui hanno sempre trovato un riferimento prezioso — e della galassia Fininvest (leggi famiglia Berlusconi) di cui la leader di Fratelli d’Italia ormai diffida, cordialmente ricambiata.
L’ennesimo segnale che il percorso del premierato sarà più complicato del previsto. Poiché a ostacolarlo sono i suoi stessi compagni di viaggio. Prima il forzista Giorgio Mulè che ha definito il ddl Casellati «una riforma da Tso», quindi l’avvertimento del leghista Gian Marco Centinaio, secondo cui «non c’è fretta, ci vuole condivisione». Scricchiolii che la sortita del «dottor Letta» ha reso per Meloni assai più sinistri.