Opa, accozzaglia, fuffa, lagna, piagnisteo. In uno dei giorni più neri della sua storia, con almeno un milione e mezzo di suoi elettori che hanno scelto di non prendere la tessera elettorale e andare a votare, “perché tanto a che serve”, il centrosinistra si scambia messaggi affettuosi di questo tenore. Trasformando la sempre temuta analisi della sconfitta nell’ennesima guerra gli uni contro gli altri, come se servisse a qualcosa, come se finora li avesse portati da qualche parte.
A leggere in fila le dichiarazioni di ieri di Enrico Letta, Giuseppe Conte, Carlo Calenda, il rischio è che quegli elettori preda del disincanto democratico, della disillusione rispetto a un gesto – quello del voto – un tempo consueto e ormai sempre più spento, la tessera elettorale decidano di lasciarla sepolta nel cassettino della scrivania all’angolo per molto tempo ancora. Perché non c’è niente di peggio – quando il tuo elettorato ha urlato: smettila di litigare! – che continuare a farlo. Un riflesso condizionato, un istinto distruttivo. Ci fosse uno psichiatra specializzato in ex campi progressisti, toccherebbe chiamarlo di corsa e pregarlo di intervenire. Detto che sbagliano tutti, e non da ieri, c’è come sempre chi sbaglia più forte. E quindi per quanto veder riapparire Enrico Letta dopo mesi di nascondigli solo per dire “il Pd ha tenuto” appaia – nella condizione in cui si trova il Partito democratico – abbastanza lunare, c’è un fatto da tener presente. Se il Pd ha perso meno di Movimento 5 stelle e Terzo polo è perché è l’unico che, dopo le elezioni politiche più disastrose della sua storia, ha deciso di tirare una linea e ricominciare daccapo. È in mezzo al guado, diviso tra due proposte molto diverse, senza una guida, frastagliato, preda di opachi potentati locali, incapace di mostrare una visione di mondo coerente e alternativa a quella della destra di governo, talmente elusivo sui temi che più dovrebbero stargli a cuore da rischiare l’evanescenza, ma ci sta faticosamente provando. Anche se nella scelta dei candidati per il Lazio e la Lombardia ha combinato un pasticcio dopo l’altro: si è fatto anticipare dal terzo polo su D’Amato, è arrivato tardissimo su Majorino. Come al solito, ha detto di volere alleanze che non è stato capace di costruire. E non solo per colpa dei rifiuti altrui.
E qui veniamo a Terzo polo e M5s che scontano un inevitabile scarso radicamento sul territorio, ma anche i continui peccati di hybris dei suoi leader. In questa gara che la destra ha giocato per vincere, confermando la sua presa sulla Lombardia e strappando il Lazio a un centrosinistra incapace anche solo di replicare l’alleanza che lo ha retto per oltre un anno, il centrosinistra ha giocato solo per misurarsi. Come alle politiche, ma con un’aggravante: avevano la prova matematica che non avrebbe funzionato. Non con candidati che per quanto volenterosi non sono certo figure in grado di ribaltare pronostici. E quindi è venuto il momento in cui Conte, Calenda e Renzi, impegnati a disprezzarsi più di quanto disprezzino alcune misure terribili di questo governo, dicano quel che vogliono fare dei loro voti e del loro consenso. Cosa vogliono costruire? Se la risposta per il Terzo polo è il grande centro, in bocca al lupo, che non esista è stato provato tante di quelle volte che servirebbe un libro per riepilogarle. Se la risposta per Conte è superare il Pd, coraggio, facile, ma dopo che ci fai, con quei voti? Come lo difendi il reddito di cittadinanza, come lotti contro l’autonomia differenziata, come fermi le trivelle? Mettiamo da parte il conflitto in Ucraina, per un attimo, perché lì parte un dibattito violento e manicheo che non va da nessuna parte.
Facciamo qui una modesta proposta preceduta da una rivelazione, perché è chiaro che i protagonisti di questa storia non se ne sono ancora accorti: al governo del Paese c’è una destra talmente unita dal suo interesse al mantenimento del potere che uno dei contraenti può andare a reti unificate a far fare una figuraccia internazionale alla presidente del Consiglio senza ricevere neanche un metaforico buffetto. Chi nell’opposizione spera in crisi di governo imminenti e convulsioni da fratelli coltelli è destinato a svegliarsi, prima o poi, con la consapevolezza di non aver capito nulla. Davanti a una maggioranza compatta e forte sia alla Camera che al Senato, davanti alla capacità di scrivere decreti contro la Costituzione – il decreto rave – e contro la logica e l’umanità – il decreto Ong, davanti a un ministro della Giustizia garantista a fasi alterne, a seconda di chi c’è da garantire, un’opposizione sana di mente a partire da oggi si darebbe un programma minimo, ma comune. Provino a fare almeno tre cose, quando smetteranno di insultarsi a mezzo stampa. La prima è il salario minimo: sono tutti d’accordo, le differenze stanno alle virgole, stringano un’alleanza, facciano una conferenza stampa congiunta, dicano a questo Paese che tutto quel che è sotto i 9 euro all’ora è schiavitù e che in Italia non può avere cittadinanza. La seconda è la lotta all’autonomia differenziata: è talmente pasticciata che non si realizzerà mai? Probabile. Ma lottare insieme per i livelli essenziali di prestazione, perché un bambino che nasce a Firenze e uno che nasce a Reggio Calabria abbiano gli stessi diritti garantiti su scuola e sanità, sarebbe una buona battaglia. Infine, dicano insieme no ai muri sull’immigrazione (e già la cosa si fa più difficile). Trovino una proposta comune che non siano fili spinati, viaggi della vergogna e soldi alla guardia costiera libica perché in mare si salvino sempre meno persone. Poi riprendano la legge sullo ius culturae, ius scholae, o quel che sia. La chiamino Futura e non smettano neanche un giorno di provarci. A quel punto, forse, quella scheda elettorale non sembrerà più un oggetto inerme figlio di un altro tempo. Perché se chi deve scegliere non vede davanti a sé neanche il seme di un’alternativa, o sceglie quel che c’è, o resta a casa. Come ha fatto domenica e lunedì, ripassando le canzoni di Sanremo alla tv.