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18 Febbraio 2023Il Punto 17/02/2023
18 Febbraio 2023La destra vince le regionali in Lazio e Lombardia nel vuoto politico dell’astensionismo: una maggioranza schiacciante che ha disertato le urne e ha penalizzato soprattutto i partiti all’opposizione al governo Meloni
Tre milioni e centomila persone si sono astenute nel Lazio (il 63% degli aventi diritto), mentre si sono recate alle urne solo un milione e settecentomila (37%). In Lombardia a essersi astenute sono state quattro milioni e cinquecentomila persone (il 59%), sono invece andate a votare appena tre milioni e centomila (41%). Un record di astensione impressionante. Nella capitale l’affluenza si è fermata addirittura al 33%. Un dato che dimezza la partecipazione al voto alle regionali del 2018 (che si svolsero però in contemporanea alle elezioni politiche) e che approfondisce in modo netto anche il già evidente dato delle politiche dello scorso settembre.
Qualsiasi analisi di questo (non) voto non può che partire da qui: la maggioranza assoluta e schiacciante di elettrici ed elettori, ancora più schiacciante nei quartieri working class e tra le giovani generazioni, non ha trovato alcun motivo per votare nessuna delle forze politiche in campo. Un dato che colpisce tutti i partiti, seppur soprattutto quelli a sinistra.
In questi ultimi quindici anni siamo passati dalla crisi finanziaria alla crisi climatica, dalla pandemia alla guerra, senza soluzione di continuità. Ripetute emergenze in cui viene negata la possibilità stessa di immaginare e programmare un futuro differente. Questo eterno presente ha generato un sentimento diffuso verso la politica dominante che oscilla tra la «grande rassegnazione» e il «grande rifiuto» pieno di rabbia. Per alcuni anni il Movimento Cinque Stelle è riuscito a rappresentare questo rifiuto, ma dopo i tre diversi governi della scorsa legislatura che lo hanno visto protagonista ha anch’esso perso gran parte della propria alterità e la rassegnazione appare sempre più al centro della scena.
L’egemonia fragile di Giorgia Meloni
La destra capitanata da Giorgia Meloni trionfa nel Lazio e in Lombardia superando agevolmente il 50% dei consensi, confermando di non avere di fronte al momento nessuna alternativa credibile. Nei primi quattro mesi di vita del governo, infatti, non si è vista un’opposizione efficace né a livello politico parlamentare né a livello sociale. Sono stati del resto mesi attraversati da dibattiti quasi surreali: dall’allarme per i rave a quello sul rischio di attentati anarco-insurrezionalisti; dalle teorie su fantomatici legami tra anarchici e mafiosi alle roventi polemiche intorno al Festival di Sanremo. Dibattiti utili al Governo come diversivi per nascondere la sostanziale continuità con le politiche economiche e sociali del Governo Draghi, aggravate dal progetto di Autonomia differenziata e da un approccio repressivo socialmente e regressivo culturalmente del gruppo dirigente postfascista al potere. Dibattiti in cui l’opposizione non ha mai nemmeno provato ad andare alla sostanza delle questioni, come nel caso del regime carcerario del 41 bis. La stessa scelta politica di schierare i «penultimi» contro «gli ultimi» nell’attacco al Reddito di cittadinanza, ha finora trovato poche resistenze a parte quelle un po’ identitarie del M5S.
L’unica piccola difficoltà di Giorgia Meloni sembra essere quella di gestire la propria coalizione, a causa di un gruppo dirigente di Fdi impresentabile, della mancanza di visibilità di Forza Italia (da cui le fibrillazioni di Silvio Berlusconi contro il «signor Zelensky») e della crisi di radicamento della Lega (che temeva una tale debacle in Lombardia tanto da esultare per aver dimezzato gli eletti rispetto alle scorse regionali). Anche questo sta però a indicare che la vittoria di Fratelli d’Italia è interna al Centrodestra più che frutto di un’egemonia nella società. Le urne vuote mostrano infatti un gigante dai piedi d’argilla che, pur privo di avversari competitivi, non raccoglie il tradizionale entusiasmo della «luna di miele» concessa a ogni Governo nei mesi successivi alla vittoria elettorale.
L’alternativa che non c’è
Vista la sconfitta annunciata, i partiti di opposizione hanno pensato di utilizzare le elezioni regionali per testare le geometrie politiche future. A conti fatti però ne escono più incartati di prima.
Il Partito democratico ha affrontato queste elezioni senza leader e sperimentando due coalizioni diverse: una, nel Lazio, a braccetto con il cosiddetto Terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi; l’altra, in Lombardia, insieme al Movimento Cinque Stelle. I dati percentuali mostrano un’assoluta equivalenza elettorale delle due ipotetiche alleanze (sia Alessio D’amato che Pierfrancesco Majorino raccolgono il 33%), lasciando il dibattito congressuale del Pd senza indicazioni chiare sulla strada più efficace da intraprendere. E lo stesso «campo largo», con tutti dentro un’unica coalizione, che sembra comunque poco credibile e perdente.
Il M5S di Giuseppe Conte non riesce a cambiare i rapporti di forza con il Pd là dove si è presentato in alternativa: nel Lazio la propria candidata Donatella Bianchi si è fermata a un deludente 11%. Va però ancora peggio in Lombardia dove si presentava in coalizione all’interno del Centrosinistra scendendo sotto al 4% risucchiato dal consenso allo stesso Pd. Oltre alla tradizionale debolezza nelle elezioni locali rispetto a quelle nazionali, il M5S si conferma la formazione più penalizzata quando cresce l’astensione, mentre il Pd dimostra di avere un piccolo zoccolo duro di votanti anche quando l’elettorato diserta le urne. Anche nel caso del partito di Conte la via di mezzo perseguita non chiarisce la strada da intraprendere, con una discussione aperta tra chi predica l’alleanza di Centrosinistra per essere competitivi per governare e chi pensa al polo progressista con una sfida alternativa più simile al modello francese di Mélenchon.
Renzi e Calenda si trovano nella stessa difficoltà: il mancato successo della candidatura di Letizia Moratti in Lombardia, rimasta al di sotto della soglia psicologica del 10%, rivela un’alternativa centrista non proprio irresistibile. Allo stesso tempo anche i due leader centristi nel Lazio, dove erano in coalizione, vengono risucchiati dal partito più forte, il Pd, e raccolgono appena il 5%.
Pur di fronte a una sconfitta nettissima e alla perdita del presidente della Regione Lazio, il Pd tira un sospiro di sollievo e l’ex segretario Enrico Letta può dichiarare fallita l’Opa sullo spazio politico occupato dal suo partito da parte di Terzo polo e M5S. I dati mostrano infatti un ruolo del Partito democratico che, nonostante sé stesso, rimane centrale. Proprio per questo però è difficile immaginare radicali novità politiche a breve, a prescindere da chi tra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein vincerà le primarie per la segreteria.
Le diverse geometrie politiche appaiono ancora bloccate e in ogni caso una nuova leadership e un’alleanza competitiva – pur necessaria per poter almeno partecipare alle elezioni in modo sensato – difficilmente potranno bastare a riempire un vuoto politico e sociale a sinistra molto più profondo: l’astensione di massa mostra una distanza sempre più abissale tra i soggetti politici di centrosinistra e i soggetti sociali che dovrebbero rappresentare.
Il confine tra rassegnazione e rifiuto
In questo quadro già fosco, la spirale depressiva della sinistra radicale e sociale si approfondisce sempre di più – vedi l’ultimo amaro caso Aboubakar Soumahoro – influendo sulla difficoltà non solo della rappresentanza politica (evidente nei tentativi intorno all’1% anche di queste regionali) ma anche nella capacità di tessere un filo utile per un’opposizione sociale efficace. Del resto una società sempre più individualista e atomizzata, con una crisi profonda della partecipazione organizzata, crea un terreno per forza di cose favorevole alle destre, come approfondisce Anton Jäger nel suo lungo e illuminante saggio sul n. 17 di Jacobin Italia.
Per invertire questa tendenza occorre un lavoro politico, culturale e di radicamento sociale profondo, non facile da praticare e da tenere insieme con le esigenze più immediate di resistenza e battaglia politica. Subito dopo l’insediamento del Governo Meloni l’occupazione della Sapienza e le due date autunnali del percorso di convergenza lanciato dal Collettivo di fabbrica Gkn hanno indicato una via di ricostruzione possibile per un’opposizione sociale unitaria, con in testa i soggetti sociali alle prese con lotte ed esperienze di radicamento concrete e non quel che resta delle formazioni organizzate.
L’impatto della reazione al potere e dei suoi linguaggi non è stato però ancora digerito dai settori sociali più attivi e non si è intravista in questi mesi una capacità di opposizione adeguata, nemmeno simile a quella pur parziale vista nei primi mesi del governo giallo-verde con Matteo Salvini Ministro dell’interno.
La maggioranza assoluta di astenuti mostra però che siamo di fronte a dei rappresentanti senza rappresentati. La nuova destra al potere può sognare di governare un popolo muto e obbediente. Ma il confine tra la «rassegnazione» e il «rifiuto» di massa è labile e anche la forza dell’estrema destra potrebbe tra qualche tempo rivelarsi molto più fragile di come sembra.
*Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, fa parte del desk della redazione di Jacobin Italia.