Un articolo sul «New Yorker» di Edmund Wilson lo presentava come «the genio of the via Giulia». Così era noto. Un genietto dalla personalità unica che si esprimeva con la propria arte scrittoria connessa a ogni argomento combinato alla vagolabilità d’argomento, inventore di una categoria, «il prazzesco», mélange privato di sorprendente letterarietà macabra, stravagante, grottesca, incongrua e bizzarra. Wilson tesseva l’elogio di Mario Praz, «i cui libri sono cabinet di curiosità dove nulla si assapora meglio di un pezzo di mostruosità poco note».
Praz viveva nella «malinconica solitudine» che caratterizzò in fondo tutta la sua esistenza. Ciò non gli impedì di trasfigurarsi in uno degli scrittori più colti e raffinati del Novecento italiano. A causa del suo aspetto fisico – claudicante, anche affetto da strabismo –, dei notturni e demoniaci suoi temi (superba passione), nonché dell’invidia dei colleghi accademici per la sua sterminata conoscenza della letteratura inglese, aveva un’imbarazzante nomea, tanto che nei circoli letterari, evitando di citarne il nome, veniva definito «il celebre anglista» oppure «l’innominabile» e, più diffusamente, «il maligno». Era perfettamente a conoscenza della sua nefasta fama, arrivando a sostenere di fomentarla da sé medesimo per sottrarsi alla vita mondana e potersi dedicare essenzialmente agli appassionanti suoi studi.
Doveva pensare, amandoli con venerazione, di somigliare in controfigura a Byron e Talleyrand, entrambi claudicanti. Era ammirato tra i raffinati ed elogiato tra i cultori delle opere sue, viluppi di conoscenza tanto sofisticate quanto eccentriche. Sublimi nello stile, le sue opere venivano voluttuosamente citate, soprattutto alcune, somme, tra duemilatrecento titoli fra libri, saggi, articoli: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Studi e svaghi inglesi, La casa della vita, quest’ultima, raffinata autobiografia di un ossessivo accumulatore del mondo antiquariale, dedicato alle collezioni adunate appunto nella sua casa di via Giulia a Roma.
Questo singolare anglista dedicò la propria vita soprattutto a una intensa attività di saggista. Pressoché ossessiva l’indagine compiuta su vite e opere di scrittori d’oltremanica: divagazioni paesaggistiche, artistiche, scene salottiere. I suoi scritti sono un baedeker di sofisticate intelligenze. Erano allora giornali quotidiani e riviste, ai quali collaborava con articoli di «varietà letteraria»: eleganti indagini di accentuate trattazioni, a diffondere quel che potrebbe anche definirsi il metodo Praz.
Era nato a Roma il 6 settembre 1896. Il padre veniva da una famiglia originaria di Zermatt trasferitasi in Italia. La madre discendeva dai conti Testa di Marsciano. Dopo la morte del padre si trasferì con la madre a Firenze dove, studente all’università, entrò in contatto con l’ambiente artistico della colonia di aristocratici stabiliti nella città del fiore e, in particolare, con la scrittrice Vernon Lee la quale, colpita dalla vivace intelligenza di Praz, gli commissionò una rubrica intitolata Letter from Italy dedicata alle vicende italiane di critica letteraria per il periodico inglese «The London Mercury». Fu in un certo senso la forma del testo critico che diventerà il metodo dei saggi letterari per i quali Praz sarà apprezzato. Anche Papini chiese a Praz alcune traduzioni di autori inglesi e alcuni saggi su Charles Lamb – The last Essays of Elia aveva dato forma al genere saggio autobiografico –, l’autore cui Praz si ispirò e i cui scritti risulteranno felicemente innovativi.
Sempre dall’inglese il professore inviò alcune traduzioni poetiche ad Ardengo Soffici, il quale gli presentò Emilio Cecchi con cui nascerà un rapporto di confronto intellettuale durato oltre qurant’anni, elogiato con incoraggianti giudizi.
Nel 1923 Praz si era trasferito in Inghilterra, ospite dell’amico Antonio Cippico, insegnante di italiano all’University College di Londra. Il mondo inglese gli si aprì quando venne incaricato di ricoprire il ruolo di lettore di italiano presso l’Università di Liverpool. Fu in quel periodo che uscirono in Italia le traduzioni per l’antologia Poeti inglesi dell’Ottocento, elogiate da T.S. Eliot. Poco dopo andò in libreria il fondamentale La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Praz acquisì allora ampia notorietà di anglista e fu chiamato in Italia da Giovanni Gentile. Si iscrisse al PNF, tuttavia senza troppa convinzione politica anche se restò sempre e comunque un conservatore. Era l’epoca in cui si stabilì in via Giulia: preso dalla passione antiquariale avviò allora una formidabile collezione. Secondo l’ostinato cercatore, l’immaginazione coniugata agli oggetti conferisce all’avventura umana una misura che trascende la quotidianità. Il mondo, la scrittura, l’arte, per Praz erano connessi a un unico libro da sfogliare insaziabilmente.
Anglista e comparatista, il professore, con la caparbia passione per l’antico, passeggiava per Roma e la osservava deteriorarsi. Luoghi comuni, velleità, mode e furberie, vita tutta italica, radiografata con gli esempi che gli passavano innanzi: ed erano quelli della vita di tutti i giorni. Scriveva di una società che sul finire degli anni cinquanta si parlava e sparlava addosso, ed è l’oggetto di un recente esigue libretto, Misteri d’Italia Tre articoli pubblicati su «Il Borghese» (a cura di Giuseppe Balducci, Nino Aragno editore, pp. 53, euro 10,00), che raccoglie pagine straordinarie nella loro icasticità: facezie, racconti, aneddoti e ricordi… Si tratta appunto del repêchage della collaborazione di Praz al settimanale fondato da Leo Longanesi, passabile tranche antologica della moltitudine di articoli pubblicati da Praz su giornali e periodici. In realtà la collaborazione di Praz allo storico rotocalco si limitò a soli quattro articoli, mai raccolti in volume, a parte Retrospettiva preraffaellita confluito nell’opus La casa della vita. Su quel che lo circondava Praz non rinunciava a posare la propria attenzione curiosa e beffarda di irregolare, spigolando un profilo che in realtà era lo stile e lo spirito pungente dei suoi amati e intriganti avventurieri del Grand Tour. Misteri d’Italia ha la capacità di guardare al mutare dell’Italia dopo averla esplorata con quella sofisticata, ansiosa eccentricità che Praz aveva già sperimentato specialmente in Studi e svaghi inglesi, ove si era dedicato agli angoli toscani del Settecento, evocanti il pedante amor di paesaggio scoperto dagli inglesi.
Seconda «curiosità» delle recenti uscite prazziane è a suo modo una serie di portraits, una parata di profili, i «pusher» del professore collezionista: in Omelette soufflée à l’antiquaire Elogio degli antiquari (a cura di Giovanni e Giuseppe Balducci, Aragno, pp. 78, euro 15,00) Praz fotografa le manie e i tic dei suoi fornitori, gli antiquari, incessanti propositori di pezzi e curiose rarità che sarebbero andati a formare la sua ammirabile collezione. Tanto gli arredi della casa quanto le eccezionalità da lui accumulate, alla sua morte, avvenuta nel 1982, furono trasferite da via Giulia a via Zanardelli, in palazzo Primoli, per essere risistemate come «Museo Mario Praz». Gli oggetti della raccolta – oltre milleduecento – sono eterogenei, secondo i gusti e la fortuna del collezionista: dipinti e stampe, mobili, suppellettili, busti, piccole sculture e una peculiare parade di ritratti in cera «per i quali il mio gusto non conosce limiti cronologici». Gli oggetti della collezione si riferiscono in particolare al diciottesimo e al diciannovesimo secolo, con stili che vanno dal neoclassico al Biedermeier.
Di sé e della propria abitazione diceva: «Ho piena la casa e vuote le tasche, anche se l’innata tendenza continua a stimolarmi nuovi acquisti». Nella scrittura e nell’accumulo di rarità Praz poteva rievocare il vizio di un entomologo dedito al piacere dell’analogia e del confronto: il quale, oltre al collezionismo, si misuri con la sua erudita prosa a uno spirito creativo che adduce alla dimensione di «cortese cicaleccio di una conversazione» di «affabile intimità con il lettore», come lo ritrae Raffaele Manica (Praz, Italo Svevo 2018) profilandolo nell’aura luminescente e ambigua di un dagherrotipo.