Leggendo il testo della delega al governo sulla riforma fiscale, approvata dal Consiglio dei ministri del 16 marzo, viene spontaneo chiedersi quale sia il pensiero che è alla base della riforma, ma soprattutto dell’imposizione sui redditi delle persone fisiche.
Da un primo sguardo si potrebbe pensare a una serie di slogan per raccogliere consenso e voti, come ha illustrato Maria Cecilia Guerra in questo giornale per la lotta all’evasione, ma questo non è sufficiente. Le statistiche dell’Istat ci dicono che in Italia, nel 2021, i lavoratori dipendenti erano 18.244.000, i pensionati 16 milioni, i lavoratori autonomi 5.039.000.
Quindi, se il bacino elettorale più consistente è quello dei lavoratori dipendenti e pensionati, perché la riforma della tassazione personale non è costruita a loro vantaggio? Al contrario è chiaramente indirizzata a favorire il lavoro autonomo con la flat tax e la classe abbiente o la media borghesia.
Infatti, un altro dato Istat ci dice che le persone che guadagnano più di 100.000 euro l’anno corrispondono all’1,2 per cento dei contribuenti, quindi un bacino elettorale trascurabile. Considerato che un membro del parlamento o del governo ha uno stipendio annuo superiore a 100.000 euro si potrebbe malignamente pensare che la riforma difenda i redditi più elevati perché questi comprendono quelli dei deputati, senatori e ministri. Ma anche questo non ci aiuta a capire il pensiero che ha ispirato questa riforma fiscale.
LE PROPOSTE E LE CRICCHE
La presidente Meloni, annunciando la riforma, ha parlato di rivoluzione sociale. Questa avviene per ora con una riduzione del numero delle aliquote (non ancora precisate) dell’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche) e verso fine legislatura con una tassa piatta per tutti. Questa è, sì, una rivoluzione, ma verso l’iniquità sociale sancita per legge.
Come ho già scritto tempo fa su queste colonne, in teoria l’equità fiscale dell’Irpef si attua con una pressione lineare che parte da un’aliquota del 10 per cento sui redditi più bassi per arrivare a un’aliquota del 60 per cento, più o meno come avveniva negli anni Settanta del secolo scorso dopo la riforma fiscale del 1973.
Questo sarebbe uno schema semplice e di equità verticale. Contemporaneamente si dovrebbero azzerare tutte le deduzioni di reddito o di imposta che nel tempo hanno raggiunto un valore di oltre 100 miliardi, e disporre solo quelle relative alle spese sanitarie, alle spese per la scuola o per i figli a carico.
Secondo il viceministro Maurizio Leo, la progressività si attuerà con lo strumento delle detrazioni, soprattutto nel caso della flat tax, ma questo sistema è assai meno corretto del sistema con aliquote progressive, senza contare che si continuerebbe a mantenere un dedalo caotico di detrazioni, ideali per favorire qualche categoria di contribuenti, come avviene ora.
Non ci sono indicazioni di quale potrebbe essere l’aliquota della flat tax per tutti da attuare a fine legislatura. Ipotizzando un’aliquota del 20/25 per cento appare evidente che il vantaggio riguarda solo i redditi più elevati. Questa ipotesi contravviene alle disposizioni dell’articolo 53 della Costituzione che stabilisce una tassazione progressiva basata sulla capacità contributiva del cittadino, due principi che la tassa piatta ignora, risultando quindi una norma incostituzionale. Dunque l’attuazione della flat tax per tutti richiederebbe una riforma costituzionale che difficilmente il parlamento approverebbe.
IL BILANCIO DELLO STATO
L’articolo 22 della delega stabilisce che la riforma sia a saldi invariati. Nel 2022 il gettito tributario del nostro paese è stato di 609 miliardi, importo che serve a mantenere un sistema sanitario, un sistema pensionistico, a pagare gli stipendi della pubblica amministrazione, a garantire i servizi pubblici. Queste sono le “spese pubbliche”, come definite dall’articolo 53 della Costituzione.
In base al progetto di riforma fiscale non vi è dubbio che la revisione proposta dell’Irpef e dell’Ires, e magari domani una tassa piatta per tutti, porterà una sensibile riduzione del gettito fiscale. Lo stesso progetto non dice come e dove si prenderanno i fondi necessari a mantenere un gettito fiscale almeno pari a quello attuale.
Dobbiamo allora pensare che questo governo intenda togliere fondi alla sanità, alla scuola, alla cultura e ad altri servizi sociali per finanziare questa assurda riforma? Il governo di destra guarda molto ai privati ma un’eccessiva privatizzazione di certi servizi essenziali come la sanità può provocare danni, come è successo in Lombardia con la pandemia.
Infine, gli estensori del progetto di riforma si sono chiesti se e come potrà integrarsi, in un domani, il nostro regime fiscale, come modificato da questa riforma, in una legge fiscale comunitaria? Perché da tempo se ne parla e prima o poi si dovrà finalmente arrivare a una legge comunitaria che, tra l’altro, dovrà cancellare finalmente la concorrenza fiscale attualmente in atto.
Tra i paesi dell’Unione europea la tassa piatta sul reddito delle persone fisiche vige solo in Romania, Bulgaria, Estonia, Lituania, Macedonia e Ungheria. E non saranno certo i sistemi fiscali di questi paesi ai quali si ispirerà il futuro sistema impositivo dell’Unione europea.
Tommaso Padoa-Schioppa, quando era ministro dell’Economia, disse che è «bello» pagare le tasse. Questo è verissimo purché l’imposizione tributaria sia basata sull’equità e lo stato offra servizi efficienti per sanità, scuola e ricerca, trasporti e sicurezza.
Questa filosofia appare ben lontana dal progetto di riforma fiscale del governo Meloni. Dobbiamo allora concludere che il progetto di riforma nasce da incompetenza, ignoranza, ma soprattutto da una politica ottusa e conservatrice che, se attuata, aumenterà le disuguaglianze sociali che, come ben sappiamo, sono uno dei principali ostacoli alla crescita di un paese.