Matteo Zuppi
Il suo sangue è per metà romano — anzi, vaticano — e per metà brianzolo. La Santa romana Chiesa e la Brianza bianca: poteva non diventare prete uno così? E beato lui che ci crede fin dalla nascita, diciamo noi laici che tanto vorremmo una fede certa, che ci metta al riparo dall’angoscia.
Perché se Dio esiste c’è l’ happy end .
Ma è così davvero? Cioè: davvero c’è gente che ha il dono di non dubitare mai? Il cardinale Matteo Zuppi, 67 anni, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, sorride come per dire: no, non è così. Dopo ce lo spiegherà meglio.
Cominciamo dai suoi genitori.
Suo padre?
«Enrico Zuppi. Romano de Roma.
Battezzato alla parrocchia di Sant’Eustachio, vicino al Pantheon. Ma sua madre era ciociara, di Veroli, e suo padre di Trentola Dugenta, provincia di Caserta».
Sua mamma?
«Carla Fumagalli»
Nome brianzolissimo. Come il Brambilla-Fumagalli dello sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo.
«Infatti era di Seveso, come mia nonna. Tutti gli altri componenti della famiglia erano di Giussano».
Con loro due lei ha respirato il cristianesimo già in culla.
«In mio padre c’era una componente papalina. Era direttore dell’edizione della domenica dell’ OsservatoreRomano ».
Abitavate in Vaticano?
«No».
Che uomo era suo padre?
«Molto affettivo, anche nel suo rapporto con il Padreterno. Era cresciuto con don Giovanni Rossi, uno dei segretari del cardinal Ferrari, fondatore della Pro Civitate Christiana, ad Assisi».
«Cattolicesimo brianzolo, appunto. Una fede essenziale, forte, senza discussioni. Era laureata alla Cattolica».
Lei da bambino pensò: “Da grande farò il prete”?
«Pensarci sì, deciderlo no. Facevo il chierichetto alla Curia Generalizia dei Gesuiti».
Messa in latino?
«Rigorosamente».
Quando si decise?
«All’università. Avevo incontrato la Comunità di Sant’Egidio e ne ero stato coinvolto. C’era una passione viva, radicale, spirituale e umana».
Mai avuto dubbi sulla sua vocazione?
«Certo che sì. Il confronto con la propria debolezza e il peccato c’è sempre. Ma ero in una compagnia, un popolo sacerdotale e di laici molto impegnato. Questo mi ha aiutato molto perché la Chiesa è comunione».
Si è mai innamorato?
«Sicuramente. Ma ero più innamorato di Gesù. Non ho
dovuto lasciare nessuna!».
E dubbi di fede? Molti pensano che uno che si fa prete ha la vocazione, quindi una certezza, quindi beato lui.
«È una visione sbagliata, purtroppo qualche volta confortata quando abbiamo pensato che la santità significasse un modello perfetto, senza umanità, tanto da essere quasi disumana».
Giovanni XXIII diceva: un santo non può essere triste perché ha Dio. Aveva ragione?
«Sì e no. Anche il santo fa una grande fatica a trovare le risposte.
Lo leggiamo anche nel Vangelo, che non è elisir di benessere, ma proposta di amore a persone che lo cercano ma ne hanno paura o pensano sia possesso. I discepoli spesso esitano, dubitano, non capiscono, interpretano Gesù con le categorie del mondo. Il Vangelo è un testo molto più umano di come spesso l’abbiamo raccontato. E poi il cardinal Martini diceva: “Dentro ogni credente c’è un incredulo”».
Vale anche il contrario?
«Certamente».
Com’è la giornata di un prete?
«Le posso dire la mia. Per fortuna non ho mai vissuto da solo. E vivere con altri sacerdoti e con gli amici, consumare almeno un pasto al giorno con loro, camminare insieme è stato molto importante».
Sveglia alle 6?
«Un po’ prima».
A che ora si chiude?
«Verso mezzanotte. Insomma qualche volta anche un po’ più tardi. Per fortuna che sono vecchiarello e dormo poco».
La preghiera?
«È l’inizio e la fine della giornata.
Guai se non fosse così».
Eppure molti pensano che il fare sia più utile che il pregare.
«È la tentazione evangelica di Marta. Ma se non c’è lo spazio per la contemplazione, il silenzio e la lettura, il cuore si svuota e non sappiamo più amare. E poi serve l’ascolto».
Ascoltare chi?
«La parola di Dio e il prossimo. Le racconto un episodio. Ero alla parrocchia di sant’Agata, qui a Bologna, e avevo finito la visita pastorale, stavo tornando a casa. Un bambino mi avvicinò e mi disse: “Vieni a trovare mia zia?”. La tentazione fu quella di dire no, non posso, devo andare. Poi pensai all’insegnamento di Gesù: mai contristare i bambini. E allora gli dissi: “Va bene, andiamo a trovare la zia”. Mi portò sulla sua tomba: era morta tre mesi prima. In quel momento mi tornò in mente una volta in cui non mi ero comportato così».
Ce la racconti.
«Ero a Roma e stavo facendo il giro della benedizione delle case.
Un signore mi disse: “Io ce l’ho con lei”. “E perché?”, gli chiesi. “Tempo fa venni a cercarla, le dissi che era morta mia figlia e lei non mi ascoltò”. Io sinceramente non miricordavo. Facemmo la pace. Ma quell’episodio mi interrogò duramente. Capii come si può ferire anche solo con la sufficienza o il paternalismo».
Il prete deve essere “di strada”?
«Il prete è sempre di strada. A dire il vero lo siamo tutti, solo che pensiamo di essere di appartamento! Qualcuno cantava che il giudizio universale non passa per le case! Il cristiano è sempre di strada. Gesù non sta nei palazzi!
Anche quando amministra una diocesi. Io ho molte incombenze amministrative, ma questo non vuol dire non essere attenti alle persone».
Molti preti dicono: se vado in Vaticano rischio di perdere la fede. Perché il Vaticano gode di così cattiva fama?
«È un’idea sbagliata. In Vaticano c’è sempre stata una buona norma: chi ci lavora dentro deve lavorare anche in parrocchia. Il cardinal Casaroli tutte le domeniche celebrava la messa nel carcere minorile e conosceva tutti i ragazzi per nome».
Però gli scandali, i conflitti intestini…
«Ci sono stati, certo: ma la Chiesa non è la comunità dei perfetti. È fatta di uomini, e gli uomini sono peccatori. Però il Vaticano non è una banda di mascalzoni. Casta meretrix ».
Che cosa pensa delle accuse a Wojtyla sul caso Orlandi?
«Che sono inqualificabili. Mi spiace dirlo, ma chi le ha pronunciate così perde credibilità. Certe ricostruzioni forse sono frutto di un cuore ferito. Tanta vicinanza alle ferite: ma queste non giustificano le calunnie».
Don Matteo, lei come si immagina la morte?
«Le dico come la vorrei affrontare.
Da lucido, potendole dire: cara sorella morte, vieni, non mi metti paura. Ci resterà male! Ma non sono sicuro che ci riuscirò. Conosco la mia fragilità».
E come si immagina il paradiso?
«Come una comunione piena, un amore che non finisce. La gioia di essere se stessi, senza diaframmi, uniti, una cosa sola con Dio e con il prossimo. Senza più paura».
Incontrerà anche papà Enrico e mamma Carla?
«Certo. Loro, e tante altre persone che ho sentito vicine nella sofferenza, quelli che ho incontrato, i compagni di strada, i poveri, i morti della guerra in Ucraina».
Sarà una grande festa?
«Non c’è dubbio. Una festa perché sarà piena di riconciliazione con tutti, immersi in Dio, quel grande mistero di amore che finalmente capiremo pienamente. Ecco, immagino il paradiso così: amare e farsi amare».