LA Cop28 certifica la fine dell’“età della ragione”
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19 Dicembre 2023Dei 19.453 palestinesi uccisi dai bombardamenti israeliani dal 7 ottobre ad oggi, 109 sono della famiglia allargata dei Doghmush. Si è saputo solo ora, dopo giorni, il bilancio di morte e lutto che ha devastato la famiglia più grande di Tel Al Hawa, alla periferia del capoluogo Gaza city. Sara Doghmush, 26 anni, con studi da poco conclusi all’Università di Siena, segue da Milano, dove ora vive, le notizie drammatiche che riguardano la sua famiglia. «Il nostro quartiere è stato uno dei più bombardati di Gaza city» racconta al manifesto «sapevo che molti Doghmush sono stati uccisi, ma non immaginavo così tanti, è terribile». Suo padre e sua madre sono salvi. «Si trovano a Rafah come tanti sfollati dal nord e stanno bene. Invece i miei due fratelli sono stati feriti, uno in modo grave. Sono preoccupata perché da 15 giorni non riesco a raggiungere i miei genitori al telefono, delle volte sono presa dallo sconforto e immagino gli scenari peggiori»», prosegue Sara che appena qualche settimana prima del 7 ottobre aveva festeggiato il suo matrimonio con la famiglia. «Vivo nell’ansia, non so come avere notizie, posso solo pregare e sperare che siano vivi».
Migliaia di palestinesi originari di Gaza vivono la stessa angoscia, tra notizie di massacri di civili, blackout nelle comunicazioni telefoniche e di Internet – l’ultimo qualche giorno fa è durato 72 ore – e il dolore di sapere la propria famiglia sfollata, senza un riparo e alla fame. Human Rights Watch lancia un’accusa durissima a Israele. «Per oltre due mesi – denuncia Omar Shakir, direttore di Hrw per Israele e Palestina – «Israele ha privato la popolazione di Gaza di cibo e acqua, una politica incoraggiata o appoggiata da funzionari israeliani di alto rango e che riflette l’intento di affamare i civili come metodo di guerra». L’ong per la tutela dei diritti umani, ha intervistato 11 palestinesi sfollati tra il 24 novembre e il 4 dicembre. Hanno descritto le loro difficoltà nel trovare beni di prima necessità. «Non avevamo cibo, né elettricità, né internet, niente di niente», ha detto un uomo che aveva lasciato il nord di Gaza. «Non sappiamo come siamo sopravvissuti». Nel sud di Gaza, gli intervistati hanno descritto la scarsità di acqua potabile. Il Programma alimentare mondiale (Wfp) ha riferito che nove famiglie su dieci nel nord di Gaza e due famiglie su tre nel sud hanno trascorso almeno un giorno e una notte interi senza cibo. Provocare la fame è un crimine di guerra perseguibile dalla Corte penale internazionale. E mai come in questo caso le parole sono pietre. Un generale israeliano della riserva, Giora Eiland, parlando a N12news, si è lamentato per la decisione del gabinetto di guerra presieduto dal premier Netanyahu di piegarsi alle pressioni straniere. A suo dire, la «chiave della vittoria» è imporre il blocco totale di Gaza e fermare ogni aiuto alla popolazione in modo da farla ribellare contro Hamas.
Da giorni si parla delle prossime fasi dell’offensiva israeliana che da massiccia e devastante su tutto il territorio di Gaza dovrebbe ridursi nelle prossime settimane ad operazioni più mirate contro il movimento islamico. Sul terreno intanto prevale la disperazione dei civili. I palestinesi riferiscono di stragi continue, che spesso vedono al centro strutture ospedaliere. L’ultima è avvenuta alla Shifa di Gaza city con 28 morti tra gli sfollati. Arresti sono avvenuti all’ospedale Al Awda nel nord di Gaza: i soldati israeliani hanno portato via il direttore Ahmed Muhanna e 12 medici. Le organizzazioni umanitarie denunciano l’assedio distruttivo dell’ospedale Kamal Adwan dove qualche giorno fa la tv Al Jazeera ha riferito dell’uccisione di civili accampati nel cortile della struttura sanitaria. Il ministero della Salute di Gaza riportava ieri anche di un bombardamento contro il Nasser Medical Complex e della morte di una bambina ricoverata. Tra domenica e lunedì, ha aggiunto, sono morti 151 civili e 313 sono rimasti feriti, in gran numero a Jabaliya.
Di fronte a ciò gli Stati uniti continuano a rifornire Israele di bombe e munizioni per l’offensiva a Gaza e ad invocare allo stesso tempo una maggiore assistenza umanitaria ai civili. È necessario «fornire maggiore assistenza umanitaria ai quasi due milioni di sfollati di Gaza e dobbiamo distribuire meglio tali aiuti», ha detto ieri, durante la conferenza stampa a Tel Aviv con Netanyahu, il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, l’ultimo in ordine di tempo nella processione quotidiana a Tel Aviv e Gerusalemme di ministri e funzionari dell’Amministrazione Biden.
Le Forze armate israeliane riferiscono ogni giorno di successi ovunque a Gaza e di aver «ucciso molto terroristi di Hamas». Grande spazio ha trovato la notizia della scoperta di un tunnel sotterraneo di Hamas, enorme, lungo almeno 4 chilometri, adatto anche al passaggio di veicoli e che sbuca nei pressi del valico di Erez, quindi a due passi dal territorio israeliano. La Divisione 252 inoltre avrebbe preso il controllo totale di Beit Hanun o, meglio, di ciò che resta della città ridotta in macerie dalle bombe. E a Khan Yunis, nel sud, il capo di Hamas Yahya Sinwar avrebbe «le ore contate». Le cose però non sembrano andare così «magnificamente bene», come già spiega il numero in continuo aumento di soldati morti in combattimento. E a mezza bocca qualcuno comincia a dirlo e a scriverlo. All’iniziale ampio sostegno degli israeliani a un’incursione di terra a Gaza dopo l’attacco del movimento islamico il 7 ottobre, si sostituiscono poco alla volta preoccupazione e scetticismo sulle possibilità reali di «distruggere Hamas» e «liberare gli ostaggi con la pressione militare». A dare un colpo agli entusiasmi dei militari sono state le uccisioni per errore a Shujaiyeh di tre ostaggi da parte dell’esercito e, in un solo colpo, di nove soldati in un agguato di Hamas. Un segnale preciso dell’insicurezza che comincia ad albergare nel gabinetto di guerra, è stata la decisione di riprendere, i colloqui, condotti dal capo del Mossad David Barnea, con i mediatori del Qatar per scambi tra ostaggi e prigionieri palestinesi. «Col passare del tempo – spiegava ieri il quotidiano Haaretz – potrebbe verificarsi una situazione simile a quella delle ultime fasi della Prima Guerra del Libano nel 1982, dopo la conquista di Beirut. Da ciò potrebbe derivare un cambiamento nei sentimenti del pubblico riguardo alla guerra. Come nel 1982, il consenso (della nazione) si basa su due condizioni che sono venute meno nel tempo: uno scopo chiaro della guerra e la consapevolezza che la vittoria è raggiungibile. Il rischio aumenterà quando cominceranno a emergere dubbi sulla possibilità di soddisfare tali condizioni».