Mia nonna ricamava, mia zia ricamava, a Cabras ricamare era una competenza molto richiesta e prima che nascessi le donne della mia famiglia mi avevano approntato il corredo: avevo calzine per dieci infanzie e lenzuola bastanti per rivestire le camere per tre matrimoni. Qualcuna di queste solerti tessitrici della mia genealogia mi ha mai chiesto se era quello che avrei voluto? Ovviamente no e infatti non avrei saputo rispondere, sebbene poi nella vita abbia dimostrato con i fatti che le lenzuola ricamate hanno preso da me soltanto le più squallide “macchie di cassetto”, il micidiale giallastro che attacca senza pietà lini e cotoni che non vedono mai la luce fuori dalle cassepanche. A chi dice di voler agire nell’interesse dei “bambini” (da immaginare detto con tono drammatico, un po angosciato) quando vuole regolare i modi in cui si fa famiglia, in realtà di loro se ne frega. Certo che ai figli si cerca di dare il meglio, ma chi decide cosa è questo meglio? Il primo a dirti che «il meglio è nemico del bene» è proprio il famoso buon senso con cui la destra, la tradizione e il patriarcato vorrebbero impedirci di ripensare a soluzioni alternative per fare famiglia.
Negli anni in cui ho seguito il dibattito sulla gestazione per altr?, che si è intrecciato con la mia riflessione sulla famiglia, è rimasto chiaro che l’opinione conservatrice è semplice: se la scelgono un maschio e una femmina, la generazione logica non fa quasi notizia, in tutti gli altri casi sì. Per ogni dieci coppie che ricorrono a gestanti surrogate, a oggi sette sono eterosessuali e solo tre no. Ma sono quelle tre, evidentemente, a continuare a destare ansia nel dibattito, come leggo stamattina stessa (7 agosto 2023) sui giornali. È questo l’effetto dell’imprinting binario: l’atto del generare, anche se non passa per il seme di lui né per l’utero di lei, deve almeno partire da un’intenzione binaria, di coppia “lui e lei”, per il presunto bene dei bambini.
Ogni volta che esponenti del dibattito di estrema destra tirano fuori retoricamente l’argomento della salute psichica e relazionale dell? bambin? coinvolt? nelle gestazioni per altr? è per me evidente che sia un tema pretestuoso, dove la questione della volontà o dell’eventuale felicità dell? bambin? non ha alcun peso. La nascita biologica è programmata molto meno della nascita logica, che sia quella tarda ed elettiva di un figlio d’anima o quella neonatale e uterina di una figlia concepita attraverso una gravidanza surrogata. È un venire al mondo quindi, quello che chiamano “naturale”, tendenzialmente anche meno protetto, desiderato e strutturato. La nascita biologica, due terzi delle volte, è un evento che oscilla tra la casualità e la irresponsabilità. E grazie al cielo! Se così non fosse l’umanità si sarebbe estinta centinaia di anni fa, perché le circostanze desiderate o desiderabili che si dovrebbero creare, se davvero mettessimo al centro soltanto gli interessi di chi nasce, sarebbero tante e tali che la loro improbabilità è fuori discussione. Biologicamente si nasce soprattutto per caso, o comunque rispondendo a contingenze su cui il controllo è spesso limitato.
L? figli? più tutelat?, agli occhi dello Stato, dovrebbe essere semmai quell? più desiderat? e pianificat?, quell? fortemente volut? per l? quale si sono organizzate tutte le condizioni migliori affinché possa venire al mondo con la consapevolezza di essere stat? preparat? e immaginat? profondamente; addirittura molto pagat?, nel caso della gestazione per altr? – cosa che personal-mente, se fosse capitata a me, mi farebbe sentire assai orgogliosa.
Pagat? non di rado con debiti, in realtà. Perché la gestazione per altr? viene costantemente associata alla condizione di ricchezza dei genitori intenzionali, ma oggi che sono in intimità con alcuni di loro posso dire che spesso l’intenzione che nutrono, il loro desiderio e la loro volontà, sono ben più grandi delle risorse economiche che comunque investono.
Ora, nessuno può negare che per ottenere una gravidanza surrogata, con tutti i diritti garantiti per la gestante e in condizioni etiche degne, ci vogliano somme ingenti. Nel momento in cui scrivo (l’agosto del 2023) le cifre sono nell’ordine di (e lo so per esperienza) almeno centocinquantamila, se non duecentomila euro, e anche di più. Non vorrei però si dimenticasse che anche un’adozione internazionale comune e persino le adozioni nazionali richiedono una disponibilità di cifre che nessun operaio di catena potrebbe comunque permettersi, ammesso e non concesso che la generazione biologica sia comunque così meno costosa. Se ce lo si potesse permettere diffusamente, la classe media almeno di figli? biologic? ne farebbe, e non ci si straccerebbe le vesti con la retorica nazionalista della decrescita e di una presunta “emergenza natalità”.
Ormai anche le famiglie povere generano poch? figli?, quando ne generano, non potendo permettersi neanche quell? biologic?, mentre la povertà un tempo si associava alla condizione di proletariato, cioè a quella di avere come unico capitale solo ciò che viene generato dalla propria stessa carne. Il valore della prole è dipeso per generazioni dal fatto che le braccia per l’agricoltura e per il lavoro in fabbrica o in miniera fossero una risorsa economica accessibile per via riproduttiva. Ora che i braccianti li sfruttiamo e li facciamo morire sotto il sole dei nostri campi come animali da soma senza neanche seppellirli, ora che ne commissioniamo da casa il lavoro massacrante di consegna su biciclette e motorini per compensi irricevibili, ora che ordiniamo i loro servizi da app senza neanche guardarli in faccia e neghiamo loro non dico il salario minimo, ma persino l’acqua pubblica di un cimitero (succede a Ventimiglia mentre scrivo queste righe), abbiamo capito che non c’è bisogno di fare figli? nostr? per avere manodopera a basso costo. Basta rendere schiav? e sottomess? l? figli? degli altri, un proletariato surrogato popolato da coloro che abbiamo per anni disegnato come bestie, parassiti, passeggeri di “taxi del mare”, preparando il terreno per l’assurda convinzione che siano venuti qui per rubarci il lavoro, come se quel lavoro l’avessimo mai voluto fare.