l’intervento
Massimo Cacciari
Che vi siano ancora movimenti giovanili almeno non indifferenti nei confronti dei quotidiani massacri prodotti dalla “guerra civile” globale oggi in atto, non dovrebbe costituire una cattiva notizia. Almeno per coloro che non auspicano un rimbecillimento universale a colpi di influencer e propagande. Ma è essenziale che manifestazioni e proteste esprimano una coscienza critica e realistica della crisi internazionale che attraversiamo e della catastrofe cui ogni giorno di più essa ci avvicina. Mai come ora le nostre speranze stanno oltre il più duro, disincantato realismo. Mai come oggi il nostro discorso va distinto da ogni velleitarismo, il nostro linguaggio posto in contraddizione con quello dei “tifosi”, di coloro che certi di rappresentare il Bene in terra preparano al meglio la “guerra assoluta”. E così mai come in queste tempeste è indispensabile definire bene i tratti dell’avversario.
I movimenti degli studenti chiedono alle autorità accademiche la rescissione di accordi e convenzioni con università e centri di ricerca israeliani. Ecco un caso in cui si dimostra di non comprendere la natura dell’avversario e di agitare obbiettivi irrealistici. Ho appena parlato di “guerra civile” globale. Per un verso essa è davvero tale: si combatte, infatti, all’interno di un terreno a tutti comune, privo o quasi degli antichi connotati ideologici, quello di un universale “capitalismo di Stato”, retto da formidabili apparati economico-militari e dall’interesse di giganteschi sistemi finanziari. Può anche darsi che proprio questa interconnessione ci salvi dalla terza Guerra Mondiale, ma la competizione al suo interno può sempre farsi tanto violenta da risultare ingovernabile. Anche le potenze che si sono suicidate con la prima Grande Guerra erano rette da sistemi economici analoghi e interdipendenti.
Ora, la interconnessione globale più forte e assolutamente necessaria per l’intero sistema è quella che ha quotidianamente luogo nel campo della ricerca scientifica, presupposto di ogni innovazione. Essa non è interrompibile se non in una “guerra assoluta” – avvenne qualcosa di analogo nel corso degli ultimi secoli soltanto con la Germania nazista (e fu, per nostra fortuna, una delle cause della sua sconfitta). La ricerca scientifica è globale per natura. Pensare di costringerla in qualche gabbia di ordine politico è puro irrealismo. I veri scienziati finiscono col comunicare, confrontarsi, dibattere al di là di ogni norma venga loro imposta da fuori, magari fingendo di obbedirvi. Può piacere o no, ma lo spirito scientifico vola dove vuole. È patetico pensare che qualche occasionale ostacolo nel rapporto tra questo o quell’Ateneo possa significare qualcosa.
Inviterei i giovani del movimento a rovesciare l’obiettivo: altro che frenarle! che gli Atenei moltiplichino le relazioni con tutti i centri di ricerca e le Università, che si aumentino le borse di studio per studenti stranieri, che gli Erasmus si allarghino a Paesi orientali e medio-orientali. Non si tratta di interrompere relazioni, ma di svilupparle. Si chieda conto al proprio Ateneo di che cosa stia facendo per gli studenti palestinesi, libanesi, giordani. Si chieda la ragione per cui tante Università boicottano o rendono difficile il mantenimento di collaborazioni scientifiche con Università russe, fino al ridicolo di “sospettare” convegni su Dostoevskij. Che gli studenti difendano l’autentica universalità della ricerca, contro i lacci che la sonnambolica politica attuale vorrebbe imporle.
L’avversario non è l’Università d’Israele o l’Università di Mosca, tantomeno gli studenti e i ricercatori palestinesi. L’avversario è l’attuale governo israeliano, in rotta di collisione con gli stessi Usa, l’avversario è Putin, l’avversario è Hamas – avversari prima di tutto dei loro stessi popoli. Gli studenti manifestino contro di loro, e contro quei politici europei che hanno completamente smarrito il senso dell’Unione, quello di rappresentare la forza della mediazione tra le superpotenze, la forza del logos, contro la tremenda illusione che sia la guerra a poter decidere chi è nel giusto e chi no. Gli studenti manifestino contro i governi che hanno completamente dimenticato l’art.11 della nostra Costituzione.
Se si rifiuta la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, non dovrebbe logicamente derivarne che si ha l’obbligo di avanzare progetti concreti per comporre i medesimi? Che gli studenti chiedano dove stanno questi progetti – ma, prima ancora, sappiano indicare i propri. E su questi esigano discussioni aperte nelle sedi dove svolgono il proprio lavoro.
Certo, discussioni anzitutto con i loro professori, con le Autorità accademiche – e le contestino se queste difendono i Netanyahu, non se mantengono rapporti con i colleghi israeliani. Le contestino, ancora più, se la posizione di queste è indifferente, anodina, ipocrita. Ma sappiano che qui si scontrano con un formidabile problema, non risolvibile a prediche e moralismi vari.
La scienza contemporanea, salvo pochissime eccezioni, ha sempre ritenuto superfluo o, al più, sussidiario il proprio impegno politico. Ha sempre ritenuto sua unica responsabilità lavorare al progresso della propria disciplina. Simile in questo al sistema economico-finanziario, ha sempre alla fine considerato la politica non l’aria in cui vive, ma un insieme di fattori disturbanti, se non di ostacolo alla propria attività.
Manifestare contro il mantenimento di rapporti scientifici tra diversi Paesi non porterebbe che a rafforzare questa tendenza immanente nel corpus dell’Accademia. E occorre, invece, lavorare per il fine opposto: mostrare l’ideale convergenza tra l’universalità del progetto scientifico e l’obbiettivo di una pacifica federazione tra nazioni e popoli, convinti della possibilità di mediare e risolvere col logos i propri contrasti. Il sapere scientifico deve collaborare a questo sapere politico. Se non terrà fermo questo come proprio fine, anche l’attuale movimento si disperderà nell’universale chiacchiera, come gli altri del passato. Con grande soddisfazione per chi nulla fa nelle attuali tragedie se non garantirne l’indefinita prosecuzione.