ALESSANDRO BARBERA
SERENA RIFORMATO
«Il momento di cambiare insieme è arrivato». La home page della Fondazione Change di Giovanni Toti è un concentrato di ottime intenzioni. Di vento che «soffia verso il rinnovamento», di «interesse pubblico», di «obiettivi da raggiungere insieme». Purtroppo la pagina «trasparenza» è ferma a sette anni fa. Chi volesse saperne di più sui bilanci dell’istituzione che ha fin qui finanziato il presidente della Regione Liguria deve accontentarsi di quelli del 2016 e del 2017, poi più nulla. Da lì – e dal Comitato Giovanni Toti – arrivavano le donazioni che oggi la magistratura sospetta al centro di uno «scambio corruttivo». Sono contenitori leciti, previsti dalla legge. Eppure le fondazioni rimangono la zona d’ombra dei flussi di denaro in politica. Per capirne di più riavvolgiamo il nastro.
Ormai più di dieci anni fa – correva il 2013 – il governo Letta abolisce i contributi pubblici diretti ai partiti, a cui rimangono tre sole opzioni di sopravvivenza: le erogazioni liberali, il 2×1000 dei cittadini, il sostegno di soggetti terzi legati a doppio filo alle forze politiche. Il problema delle fondazioni emerge nel giro di pochi anni: la scarsa trasparenza. Inizialmente le organizzazioni sono tenute a pubblicare solo lo statuto e il bilancio. I partiti hanno obblighi assai più stringenti: ogni contributo sopra i 500 euro all’anno va registrato; sopra i tremila serve una dichiarazione congiunta del donatore e del destinatario; il tetto massimo è di centomila euro. La differenza fra partiti e fondazioni è al centro della lunga vicenda giudiziaria che coinvolge Open, la cassaforte dell’attività politica di Matteo Renzi dal 2012 al 2018. L’intero caso (oggi discusso di fronte alla Corte di Cassazione) ruota intorno a due domande: una fondazione può essere considerata «articolazione di un partito politico»? Dovrebbe dunque rispondere delle stesse regole? Nel 2019, prima il disegno di legge “Spazzacorrotti” voluto dal Movimento Cinque Stelle e un successivo decreto tentano di introdurre norme più severe per gli organismi nell’orbita delle forze politiche. Raffaele Cantone, ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e oggi procuratore di Perugia, a La Stampa descrive l’esito così: «La modifica fu un passo avanti, ma non risolutivo, il problema rimane». Le fondazioni vengono equiparate ai partiti quando gli organi direttivi e di gestione «sono composti per almeno un terzo» da politici o ex politici. In estrema sintesi, per non dover sottostare ai monitoraggi obbligatori per i partiti, basta far sparire dai consigli di amministrazione delle organizzazioni chiunque abbia mai ricoperto incarichi. E così è accaduto negli anni successivi. «I criteri sono decisamente laschi», commenta Roberto Giambelli, coordinatore delle campagne per il ramo italiano di Transparency International, organizzazione no profit che si occupa di prevenzione e contrasto alla corruzione. «Se qualcuno non ha intenzione di fare apparire un soggetto terzo come legato al partito è molto facile». Lo dimostrano i dati dell’ultimo rapporto intitolato «L’integrità della politica italiana», finanziato con fondi dell’Unione europea. Dice il dossier: «Nel 2022 il mondo della politica, i partiti e i soggetti terzi collegati, hanno ricevuto in totale 32,2 milioni di euro tramite il meccanismo delle donazioni private». La fetta principale, il 61,38%, è arrivato dai contributi dei parlamentari (ogni eletto versa una certa quota di stipendio al proprio partito). Il 22% era riconducibile a persone fisiche, il 14,4% a società private e solo il 2,1% è passato attraverso fondazioni e associazioni dichiaratamente collegate ai partiti: 676 mila euro. Una cifra che stride alla luce di un altro dato: fra il 2015 e il 2020 un altro ente no profit – Openpolis – aveva mappato ben 121 fondazioni nate al servizio di una forza politica o di una sua corrente. Delle 108 strutture analizzate da Transparency nel 2022, solo otto hanno pubblicato l’elenco dei finanziatori o dei soci. Val la pena qui citarle una per una: Aspen Institute Italia, Fondazione Etica, Open, Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, Sviluppo sostenibile, Human Foundation, Italia decide, Symbola. Chi le controlla e con quali poteri? Alla Camera dei deputati il compito è in capo alla «Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici». L’ultimo rapporto è del 29 aprile 2024 e si conclude con una denuncia già presente nei precedenti: «Non può sottacersi il permanere dell’insufficiente dotazione di risorse umane e strumentali destinate alle numerose e complesse attività di controllo».
Ma c’è un’ultima domanda la più importante di tutte: per evitare casi come quelli di Genova è davvero sufficiente il controllo su questi enti e sui loro bilanci? A precisa domanda Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità anticorruzione, risponde di no: «È quantomai urgente una seria regolamentazione delle lobby, come ci chiedono da tempo molti organismi internazionali, fondata sulla piena trasparenza e con limiti e divieti chiari per evitare ogni rischio di opacità. I portatori di interessi, piccoli o grandi che siano, non vanno criminalizzati, ma regolati in modo efficace. Occorrono canali visibili a chiunque attraverso i quali far veicolare le loro proposte, mettendo sullo stesso piano lobby più o meno potenti». Quella è la precondizione per finanziamenti altrettanto trasparenti e leciti. Fino ad allora, con o senza le fondazioni, di vicende come quella di Genova se ne racconteranno molte.